Della sfacciataggine guidonesca schernita
Capitolo Secondo
DELLA TRATTENITRICE AVVEDUTA
Rima doppia spagnuola
Después que la carretta apresurada
quedó enboscada, y lejos de la gente,
la Bigornia insolente, alborozada
saltó en una llanada, y su regente
quedó muy prepotente en la enboscada.
Viose Justina apretada, y de repente
pensó tan conveniente modo y traza
que el carro le servió de red de caza.
Un grande ammiraglio de' picari credendo trapolare la picara Giustina, rimase egli da lei trapolato. Num. I.
{Descrive la velocità ed il modo col quale fu menata via.} Doppo ch'io mi partii o per meglio dire, che mi condussero per mare in carretta, anzi in seggiola per l'aria con molta mia soavità e delicatezza, come s'io fussi stata in un guazzettino o potacchio di fegatelli, con piedi, budella e durelli di polli; nel che tanto più godevo, perché la notte aveva posto al sole la maschera, accioché la polvere o la neve non offendesse la mia bella faccia e ch'io prendendo riposo e dormendo, mi trasferissi come soldato di ronda o birro di guardia a visitare gli antipodi, lasciando a Delio il carico di luogotenente, {Dove si fermarono con la carretta.} si fermarono in una pianura che quivi poco innanzi si trovava, in faccia di un bosco che a noi serviva di trincera e d'imboscata.
Signora Giustina, di che temete? Non sono io qui con voi? Non sete voi qui meco? Non temete, che qui sta tutta la forza della gran bravura castigliana che fa tremare il mondo tutto dall'uno all'altro polo. Non conoscete il vostro don Ravaniglio Grullo d'Alfarache sivigliano? Deponete il timore e convertitelo in ardor d'amore, che qui avete persona che vi dona il cuore.
Ahimè, lettore gentile, mira con chi sono e se io posso consolarmi col sentirmi dire: non sono io qui con voi? {A persona graduata non si convengono le leggierezze.} A persona di carico e di governo ciò non istà bene, non certo, né per il buono essempio si conviene. Un governatore di popoli mettersi in così periglioso scandalo? È pur vero che dal capo putisce il pesce; e che un neo nella faccia di un grande, è macchia non piccola e tanto più è apparente e mostruosa, quanto ch'ella è in persona qualificata. Ma io ero in quel punto qual sorice nelle zampe del gatto o qual coniglio in bocca al lupo; io ero nelle mani del maggiordomo di don Sanchio, capitano di tutta la vigliaccheria, perché chiunque dà cattivo essempio, se li può veramente dire che un tal uomo sia luogotenente generale di tutti i picari vigliacchi. Amico mio, vuoi tu titolo onorato? Vivi ed opera onorata e virtuosamente e da un vero e vecchio cristiano.
Veggano il modo e la maniera mia di procedere con simile gentaglia, che altro non hanno che il vagliame Dios; perché gli hidalghi sono e procedono da hidalghi, mirino con attenzione la vittoria conquistata da una invincibile principiante, che ancora non ha fatto professione nelle scuole del mondo, non con più soldatesca, che con la sua avveduta imaginazione, né con più forze che con le sue traccie e stratagemi improvisi e con sì nobile maniera che forse, se alcune le porranno in uso, conservaranno il loro buon nome ed aummentaranno la loro buona fama.
Il mio don Grullo Ravaniglio ardeva ed abbruciava ed il suo ardore ed abbruciamento punto non consumava me: in quella guisa appunto, che avvenne al gran duca Francesco Sforza duca di Milano, principe illustrissimo ed egregio del suo tempo, il quale in quell'età fu essempio singolare di leale continenza e notabilissimo essempio di peregrine virtù.
{Avvertimento notabile.} Essendo egli Capitano Generale de' Fiorentini ed avendo preso per forza il Castello di Casanuova, successe che alcuni soldati conducevano prigioniera una graziosissima donna, la quale stridendo a piena bocca gridava ch'ella fusse condotta alla presenza del Capitano Generale. Collà fu condotta e chiedendole Francesco Sforza perché ella avesse bramato con tanta ansietà d'esser alla sua presenza appresentata, con ogni umile riverenza li rispose: non ad altro fine che per compiacere alla volontà sua, purch'ella fusse preservata e da lui salvata dalla sfrenata ingiuria de' soldati.
Francesco Sforza, veggendo in lei qualitadi più che peregrine e scorgendola nel fiore della sua giovanezza, condizioni qualificate e singolari, giudicò che conveniva dare l'assalto a questa fortezza, perché d'ogni buon boccone la gola è pelosa e far con essa vita dolce e consolar l'appetito e star quanto più si può sulle gentilezze e caricare l'orza, accioché la barca velleggiasse con più prestezza e meglio. Insomma la condusse a dormir seco quella notte: dove volendo accostarsele ed accarezzarla, la bile gentildonna, tutta colma di lagrime e con quel più lagrimante e riverente affetto ch'ella puote, si rivoltò ad una imagine della Madre di Dio ch'era attaccata a capo della lettiera, alla quale lo Sforza portava singolar riverenza ed umile divozione e singhiozzando a piene lagrime disse:
Signore, io vi supplico che per amore di quella santissima vergine e madre di Dio e per quel rispetto ch'è pubblica fama che voi portate a ciascuna onorata donna, che non mi vogliate torre l'onor mio e la virginità mia, donata conforme alla legge di Dio e di Santa Chiesa al marito mio, il quale si ritrova prigione con gli altri prigionieri.
E quindi isfogando e sboccando rivi di compassionevoli lagrime lo supplicò a non toccarla. {Atto generoso dello Sforza.} Tanto grande fu la misericordia d'Iddio, che infuse nel cuore del conte Francesco una tale continenza, che ancorché egli avesse in sua potestà, dentro del suo letto, donna così bella e qualificata ed ignuda, non osò però pure toccarla; anzi subito saltò fuori dal letto e disse: madonna riposatevi, ch'io riposerò altrove.
Giunta la mattina si fece venir innanzi il marito di quella bella giovane, la quale a lui publicamente restituì, certificandolo, ch'era stata custodita con tutti quegli onori e rispetti che a matrona d'onore si conviene e come se sorella le fusse stata e soggiunse che all'uno ed all'altro, donava libertà: onde egli in un medesimo tempo, non solamente imitò Scipione, ma ancora lo trapassò, per esser giunto in una età molto più viziosa e corrotta. Aggiungendovisi massimamente questo: che sendo quella di nobile sangue e vivendo Scipione in città libera, {Il Sforza fece atto più notabile che non fu quello di Scipione e perché.} sarebbe egli stato punito d'aver tolto l'onore a fanciulla tale, di ciò potea ragionevolmente dubitare. Ma nel Sforza non v'era cosa alcuna che quando avesse egli voluto, senza verun sospetto poteva sodisfare al suo appetito.
Ma io con le mie accortezze e meno parole e più fatti, mi seppi liberare da' lacci libidinosi del Ravanigliano, che certissimo non averebbe imitato né Scipione, né lo Sforza, se avesse potuto usar verso di me la sua forza; ma non valse il suo ardente potere ove la virtù superò la forza e perciò nel fine ne rimase non con Dio, ma col diavolo.
Subito dunque ch'io mi viddi sola e posta nel seno della mia carretta e tutta fiacca ritrovandomi, con una mano sostenevo come con un puntello il mio corpo o come palo suole sostentar la vite, che carica del frutto sta per cadersi; comperai una libra di certi aromati, per darmi in preda al pianto, all'affanno ed al dolore e con questi composti, talmente mi ritrovai intenerita che mi diedi in poter del pianto e percuotendomi la faccia, divenni più rosseggiante del sole: onde il pianto e 'l rossore uniti insieme rendevano la mia faccia di tal maniera, che averei impaurito il tremebondo Almanzor re de' Mori, s'egli fusse stato sulla carretta e con tuonante e chiara voce così parlai: {Parole di Giustina a don Ravaniglio.}
Ahi vigliaccone, ahi don Picarone di buona marca, di fina lega, certo che non avete ben misurato i punti dell'umore ch'io calcio. Non avete penetrato a conoscere il mio genio, che per ben conoscerlo, ancorché fuste Belzebù, non sareste sufficiente ad ispiare il mio intrinseco. Amansi insieme il trottare ed il trattare; ma il modo, che ora usate meco, è da usarsi con quelli che non conoscono un pulice da un cane e non sanno quanti para siano tre buoi, menando la mano uguale tanto a grandi, come a mezani e piccioli. Con pari mie non avete da trattare in questa maniera, perché non mi sento così goffa che non sappi fare d'una mano un pugno e d'una faccia quattro e sei, secondo che mi bisogna; ed in caso di visita so ben dar al picciolo del signore, al mezano dell'illustre, a' maggiori dell'illustrissimo, dell'eccellenza, dell'altezza e più alto se fa di mestieri, senza punto abbandonarli di vista.
Quando il furbachione ammiraglio Grullo udì ch'io le parlavo come s'io fussi ad una finestra e vide che m'ero posta in maestà e che non lo secondavo nel suo picante o peccante umore, ne sentì un poco disgusto interno, sebbene nell'esteriore non lo dimostrava, vedendo che non potea ultimare gli suoi fini e finire questa lite con sentenza a suo favore, in così breve tempo com'egli credea. Tuttavia il gagliofone avea speranza di vittoria ed allegro se ne stava come uccellino che va cantando, tenendo per fermo d'aver trovato scarpa per porvi dentro la sua forma. Ma quando finalmente udì da me in buon tenore, che la mia scarpa, ch'era morbida, bella e fatta all'italiana, la serbavo per me e che a niuno volevo prestarla, si disfecero i bei visi, le carezze andarono in fumo e mirandomi con altri occhi, con meno rispetto e manco vergogna, disse: {Ragionamento di don ravaniglio a Giustina.}
Picarona, adesso m'avete da rispondere pel verso e per il diritto, che io bramo ed intendo, altrimente dimattina farovi una disciplina, che restarete supina nella carretta. Per mia fé, vogliate o non, che uniremo la vostra con la mia volontà, bella filatoia al discoperto, così conviene e si ricerca che facciate nella mia casa e vi sarà ciò di non poco profitto; e vi do parola, che per le buone qualitadi che ho iscoperto in voi, voglio procurare che siate eletta per ammiraglia del picaresimo. Ditemi faccia che non ha viso e viso che non ha faccia, poiché già la mia sentenza è data contra di voi, guardate se vi è appelazione per poter allegare o supplicare, altrimente pigliarà la possessione che trovò la esecuzione.
Quando mi sentei toccar nel vivo, mi ravivai ardentemente tutta e stridendo co' denti e gettando fiammeggianti scintille dal naso, dalle orecchie e dagli occhi gli risposi: {Risposta di Giustina.}
Questo no, babbo picarone, per non dirvi signor vigliacone (e tutto ad un tempo diedegli un buon boffettone) della sentenzia io m'appello: o almeno supplico la tua insolenza, che ella sia trasferita dal tribunale della tua giustizia a quello della tua clemenza.
Ditemi di grazia, vi pare che la mia integrità, custodita per lo spazio di diciotto anni, sia bene ch'ella si consummi a fumo morto e rimanghi qui tra due tavole della carretta, come s'io fussi un fogliaccio di libraccio vecchio, che non serve ad altro che a cose da niente, sporche, brutte e di mal odore e che pure, se viene abbruciato, il vento se lo porta in aria? Non voglio allegar in mia difesa le leggi de' Gentili, che davano alle giovani donne tempo e termine da piangere la verginità, ma già che ciò non volete fare poiché siete il principale della nobiltà picaresca non vogliate almeno permettere che in un paese tale e tra cristiani vecchi e nuovi rimanghi estinta e muora affatto una tale e tanta integrità così di subito.
Ditemi qual picaro di ospitale si trova mai, che spiri l'anima sua senza lume. E voi volete che qui niente ne abbiamo? Con strepito di campane accompagnati sono ed onorati i morti e qui ora non udiamo se non disonori che ci accompagnino? Li più indegni ed empi sono sepolti nella oscurità della notte, ma la mia virginità non essendo di tal condizione, non voglio, né intendo, che se le dia sepoltura sopra una carretta, senza lumi e quel ch'è peggio senza coperta alcuna.
Signor ammiraglio sapete quello che avete da fare? Sapete quello ch'io vi voglio comandare? Che posciaché di vostra propria volontà mi avete eletta ammiraglia, cosa giusta è che vicendevolmente comandiamo, chiamate la camerata, accioché almeno alla presenza di così bella compagnia beviamo in cerchio all'uso della nobiltà di montagna e specialmente della mia villa e dinanzi all'insigne picaresca guidoneria si faccia un festino ed a me si lascino fare quattro paia di balletti, con i miei gesti ed atti più gustosi della fessagna, accioché si vegga che mi duole il decapitar un pulcino che ha tanti anni e che si nudrì ed allevò per la tavola del signor ammiraglio.
Et similmente sappia il mio signor amiraglio don Azemilo (che tanto val a dire mulo da soma) ch'io stimo e pregio molto, che mi diate parola, che quando eserciterò il mio onorato carico di ammiraglia, mi sia dato da bere (che quanto al mangiare, già so ch'è un domandare pera al lupo, perché so che mai ne averete né per voi, né per me, se non mangiassimo delle zucche o cocuzze, ch'è la magior rendita che abbia il vostro gran magistrato dell'ammiragliato e ch'è entrata più certa che sia in tutta la Castiglia) se questo partito le piace, consento; se non, camini e corra: dico che camini e corra la carretta, che se per forza va, ella sa che le donne sanno presto mutar gli gusti in disgusti e che val più un poco di catrato in pace, che un capone in guerra e chi la pace non vuole, abbia la guerra. Mi creda, ch'io le dico la verità.
Come potrà una forzata a servire far grazie e favori, sendo ciò ufficio di gente volontaria e libera?
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Ciò vedendo la figliuola, rispose che non occorreva ch'egli facesse questa offerta, perch'essa giamai si avrebbe lasciata baciare, se non da chi fusse stato suo marito. Piacque tanto quel atto all'imperatore, che si recò a vergogna non usar cortesia a così nobile donzella sdegnando di usar la forza, come volete far voi: onde perciò la diede in moglie ad un nobilissimo cavagliere e donò loro in dote la contea del Casentino in quel d'Arezzo.
Questo veramente fu un atto nobile e generoso e un tale ne vorrei veder in voi; o seppur non volete far tanto, concedetemi almeno ch'io perda il mio onore senza esser prima onorata da vostri compagni e salutata futura ammiraglia al suono di brindisi.
Udito il mio parlare il cavaliero, volendo mostrare di desiderar il mio gusto, ristrinse il suo dentro al corpo e si determinò di chiamar la camerata per far il funerale alla mia virginità. Mio intento era di farle chiamar gli compagni per farle passar quei furori e per dar destramente tempo al tempo: ma egli credo che s'imaginasse che ciò facessi per condire gli suoi gusti con una saporita salsa. O quanto s'ingannava!
Quando io viddi che il mio ammiraglio suspese il suo desio e che se non palesemente, almeno copertamente contracambiava al mio volere e viddi che il gentil gusto ed il piacevole zefiro delle mie dolci e graziose parole, piagavano il suo cuore ed inalboravano l'arbore della sua nave a veleggiare e che attento e ammirato mi mirava e con espressi e significanti segni e cenni approvava il mio detto, anzi il mio conseglio e cassava il suo e di tutto punto dirizzava questo negozio nel suo cuore conforme alla tariffa della mia intenzione e richiesta; subito ebbi per tanto stabilito il mio volere, quanto perlevato affatto ogni suo pensiero.
{Ali dell'aquila e loro proprietà.} Si dice che quando alle ali di qualsisia uccello di rapina si congiungono quelle dell'aquila, con il potere e virtù di quelle dell'aquila si vanno pelando e distrugendo quelle degli altri uccelli ed animali specialmente quelle della grue e della feroce pantera.
Così né più, né meno veggendo io che l'ali de' desegni di questo uccellaccio di rapina si congiungevano con quelle del mio pensiero (ch'erano ali d'aquila sublime e regina di tutte le picare) tenni per certo di scemare il suo intento e distruggere li startagemi de' suoi vani desideri con la mia astuzia: e specialmente mi fece grande animo il vedere ch'aveva smarrita e perduta la prima occasione, {Non bisogna perder la prima occasione.} perché è regola certa ed infallibile, che chi perde il primo punto, perde molto; e che per un chiodo si perde un ferro da cavallo e per un ferro si guasta e ruvina un cavallo e per un cavallo si scompiglia e perde un cavagliero; e che il sarto che non fa il groppo, perde il punto; e che si perde molto per esser stolto; ed insomma il perdere fa cattivo sangue, così il vincere fa sempre lodabil cosa, ma molto maggiore è il vincere se stesso. Ciò ebbi per buon pronostico e conobbi che il vento era in mio favore, avendo veduto che'egli aveva perduto il suo primo punto: ben lo sa chiunque giuoca alla bassetta, giuoco invero da esser fuggito e bandito, più che non sono gli archibugetti nel veneziano.
Era il disegno dell'amore dar la caccia ad una fiera chiamata la buona occasione. caminando con diligenza per ispiare le vestigie di così gustosa caccia, giunsero ad un folto monte, nella cima della cui altezza e sopra d'una precipitosa rupe v'era l'occasione tutta ritirata e racolta in se stessa.
Amico fate portar qui una gabbia, che porremo in sicuro l'occasione e viva conservandola, la portaremo con noi per non faticarci più tanto, come ora abbiamo fatto in cercarla. Mentre l'amore voltò la faccia ed il corpo per dire queste poche parole al conseglio, se ne fuggì l'occasione a tutta briglia, lasciando l'amore burlato o disonorato.
Querelossi l'amore del poco aiuto del conseglio, il quale rispondendoli gli disse:
Amico amore, io non accompagno se non alla caccia e non aiuto ad imprigionare alcuno, sicché tua è la colpa, che avendo la preda nelle mani ed arme alla cintura non avevi più bisogno del mio aiuto. {Non s'ha da esser tardi nel pigliar l'occasione.} Non sai che mentre il cane piscia, la lepre se ne va? Bisogna pigliar le venture quando Iddio le manda. Quando il pesce viene a riva, chi nol piglia ei scappa via. Non sempre si dee aspettare la palla al balzo. Chi non fa quando può, non può far quando vuole.
Così con molto fondamento io rimasi consolata in vedere che l'ammiraglio si poneva con ansia a dimandar conseglio in tempo, ch'egli avea la preda e l'occasione nelle mani. Con le ragioni ch'io le dissi egli s'acquetò e si dimostrò ubbidientissimo a' miei comandamenti, più che se io fussi stata il re.
{Chiama li suoi compagni e come venissero. Simili.} Cercando poi di mettere in esecuzione li miei ordini, subito diede un fischio tuonante a guisa di cacciatore o di ladrone per chiamare o dar alcun segno che renda poco utile altrui; che dell'uno e dell'altro avea buon garbo, al cui zimbellante ciuffulare venne in aiuto la sua guidoneria, pensando ch'io avessi, come un ladrone, nascosto alcun furto o, come cacciatore, ucciso la mesta tortorella presa nella rete che eglino tesa lasciarono.
Viva il signor ammiraglio rimediatore ed aiutatore delle povere orfane.
Io, ch'era più vigliacca di loro per guadagnarmi il loro volere, secondo il mio intento dissi con voce interotta: così è, così è, con un attitudine di vita molto attilata, accompagnata con scherzi e movimenti di corpo non dissimili da quelli che sogliono fare gli colombini quando stanno sopra il limitare d'una finestra. Usano tutti questi tratti per vestirmi del colore della caccia, il che fu cagione in buona parte, che la medesima carretta, ch'eglino avevano ordinato per il loro trionfo, a me servisse di vivaio per far buona pescaggione, come appresso ne' due seguenti numeri con molto tuo gusto intenderai.
Moralità |
Oltre che Dio permette che gli uomini grandi e posti in alta dignità non conseguiscano i loro gusti che nel pensiero han fabricato, ordina ancora e vuole, ch'eglino siano instrumenti delle angoscie e pene loro e carnefici della propria persona. Et siccome non v'è grano senza paglia, né vino senza feccia, né rosa senza spina, così non v'è guato senza disgusto, né allegrezza senza pianto, né riso senza doglia, né uomo senza difetto.
DEL PAZZO E STOLTISSIMO
chiacchieramento sensuale
Estancias de gonsonancia doble en un mismo verso
Hizo sceptro de un garrote el viscote,
y a guisa del rey Mono, hizo su trono.
Y para mas abono, dijo en tono:
Amigos, cese el cote y ande el trote.
Hoy se casa el monarca con su marca,
no quiede pollo a vida, ni comida,
con que no sea servida mi querida,
llamalda en la comarca polliparca.
Traed tocín, y bon vin, de don
Martín,
pan, leña, assadores, tenedores,
frutas, sal, tajadores los mayores.
Presto, que el dios Machín pretende el fin.
Acabada esta razón, dijo el moscón:
Marchad luego, ola, sin parola.
Fuéronse con tabaola, y quedó sola
Justina en conversación con su guidón.
Justina entretenía, y suspendía,
de modo que pudieron los que fueron
hurtar lo que quisieron, y volvieron
con lo que pedía su señoría.
Venidos, se assentaron, y brindaron.
El guidón don Pero se hizo un cuero,
luego el carretero cargó muy delantero.
Mas que si mucho peccaron, más penaron.
Vuole don Ravaniglio far un solenne convitto per festeggiar le nozze che pretendeva di fare con Giustina; onde manda gli suoi concameranti a proveder del tutto. Ubbidiscono essi prontamente e dopo avere commesso diversi furti mangiano insieme e s'ubbriacano, senza però toccar la giovane. Num. II.
Giunta era la di lui guidonesca corte al cenno e tuono del fischiare e subito quei vigliacchi circondarono la carretta ed il signor governator della guidoneria risiedeva nel mezo di loro; e parendogli che non era bene, né meno conveniva, che un cavaliero posto in alta dignità s'ammogliasse come constumano di fare i cavalieri moreschi (che tale doveva forsi essere anch'egli) quindi per potersi maritare rinunziò la cavaleria (che venne a dire ch'ei rinunziasse la croce impresa dell'abito suo) e da se stesso si fece re, {Don Grullo si fa re da sua posta.} pigliando per suo scettro un pezzo di bastone storto, che serviva da stringere le some alle mule; e fece con la cappa il baldacchino, che servì anco per suo trono imperiale, ponendoli per seggia reale due smisurate corna, che pareva per appunto un re de' Scimmiotti.
Cari gentiluomini miei, per tali conosciuti in questa nostra campestre e selvatica regione, per le prodezze vostre, tanto chiare ed illustri che rilucono e risplendono di notte più che non fanno gli occhi di gatto, onde perciò sono e chiamar si devono prodezze gattesche (idest furfantesche). Famosi per le vostre imprese, impiegate in fatti poco meno che eroici, dentro a buone taverne, nelle quali oggi in speciale vi averete d'avanzare, per complimento e segno d'allegrezza de' miei gusti e contenti; e ciò sarà il primo atto delle vostre azioni campestri.
Per il secondo voglio che caminate di trotto, perché tale è anco il passo de' miei desideri. Di più vi avviso ch'io vi ho accettato e dato luogo in questo mio carro trionfale, accioché come di un altro Scipione incoroniate di gloriosa palma la mia nobil testa, non già per la vittoria ch'io m'abbi acquistata, ma bensì per quella ch'io spero di conseguire. Oltre di ciò vi avvertisco che conviene al mio servizio ed all'onore della onorata guidoneria nostra e delle vostre tenaci tenaglie ed alla nobile pudicizia della nobile signora Giustina nostra sorella, tanto cara, quanto che poco mi costa, che poiché posso dire che oggi sono nato del ventre della fortuna, con gusto ed allegrezza festeggiate l'illustre mio odierno nascimento.
Le circostanze del tempo e de' pianeti (se desiderate saperlo) mi danno ad intendere ch'io son nato sotto la protezione e felice auspicio della stella di Venere, che perciò m'ha da esser favorevole il Dio d'amore suo figliuolo e felicissima l'alba e dolcissima l'aurora della mia soavissima Giustina. Cantarete con tuonante e sonora voce, quando che 'l cielo tutto pieno di felicità onorerà la mia testa con la perpetuità del verde e frondoso lauro; e direte ch'io rinasco come la fenice dalle ceneri che la signora Giustina ha fatto del mio cuore, doppo di aver abbruciato le di lui virtù, con l'immortal fuoco del suo rigore.
Questo giorno a me sarà per mai sempre solennissimo ed a voi doverà anco esser tale, poiché il vostro monarca si marita con la sua Giustina. Per tanto vi comando e voglio, che tutti voi compartitamente andiate per questa regione e suoi confini, che sono grandi e molti e la spogliate di tutti i polli, palombini ed uccellami domestici e salvatici in pena della vita. Et perciò voglio che la signora Giustina in questo giorno sia appellata la signora Polliparca, perché intendo e così voglio, ch'ella sia la Parca che acceleri la morte a tutti i polli.
Nel vostro ritorno non cessate di fare continue e perpetue dimostrazioni di allegrezza, perché in voialtri risiedono le mie speranze, poiché sapete che fino alle cicogne con molti altri volatili si congiungono insieme a festeggiare in varie soavi maniere i dolci himenei, quali sono questi con la mia lieta signora Giustina. All'andare signori, che il Dio d'amore tiene ale e non può sofferire dilazione alcuna; e specialmente il mio, ch'è più veloce nel volo di qual si sia uccello. o là! Amici cari, manco parole e più ubbidienza, perché le speranze de' miei piaceri non mi danno più lungo tempo, che di un'ora e però non è giusti ch'io vi dia maggior tempo per esequire quanto vi ho ordinato e commesso.
Non ebbe tantosto finito di dire il nuovo Eliogabalo, che quel branco di persone della sua fazione. con una mescolanza di voci e quali pecore, asini e becchi, l'uno doppo l'altro saltarono un largo fosso e più veloci e presti che galeotti al remo, si occuparono in ubbidire il gran principotto della guidoneria. Allora ebbi per vera la favola del volpone, {Volpone e sua favola.} il quale per andarsene presto alla caccia di una sua amata volpicella, pose le ali di un griffio ad un porcelletto giovane gagliardo e si trovò tanto per servito, che giamai fu fatta alcuna caccia con più prestezza e velocità quanto fu questa.
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Addimandò un gentiluomo ad un principalissimo cavaliero, dicendogli: {Perché uno pagasse mal volontieri gli suoi debiti essendo per altro liberale.}
Signore, perché pagate così mal volontieri i vostri creditori, essendo in ogni altra azione generosissimo e quasi prodigo con persone alle quali niente dovete?
Rispose il cavaliero:
Perché il pagare per obligo è azione mercantile, ma il dare non essendo debitore, è cosa signorile. Non mi voglio trattenere in discorrenze sopra questo punto, che ben si vede chiaro che errò questo liberale pazzo, che anzi il prodigo così facendo paga tributo alla imprudenza ed al volgo ed a quel che di lui dirà tutto il mondo; e per il contrario, quello che paga i suoi creditori dimostra gran nobiltà,
e peñas fuertes, che noi diressimo a' boschi giovani, a' galli vivaci o a' detti pronti e mordaci ed a' rupe o monte altissimo, forte e gagliardo; cioè ad uomini saggi ingegnosi e forti, ch'essi decidano questo punto: però concludo a mio proposito, con dirti: avvertisci e considera, come questi vigliacconi tenevano per bene ubbidire in cose brutte al lor signore, con signolar prestezza e senza alcun riguardo (perché tale e il lor costume) anzi furono tanto veloci e presti, come i raggi del sole, che in uscendo d'oriente appar subito in occidente, che maggior prontezza non poterono dimostrare questi demoni al loro belzebù. Disse un portoghese: "volpe mia, trama ci è, gatto ci cova".
{Descrizione del nascere del sole.} In questo mentre comparve il biondo Apolo, frettolosamente correndo per la cima de' monti e de' colli ad iscoprire e conoscere la nobiltà e la scelerataggine e dov'elleno alloggiate fussero per compiutamente conoscere i furti, i ladroni, le imboscate, gl'inganni e gli agguatti loro, de' quali egli fu sempre notabile inimico. Ma ritrovandosi stracco il bellissimo e rilucente Apolo, per il molto correre ch'egli aveva fatto, si trattenne a riposarsi presso un monte vestito di vari e bellissimi arbori e di belle erbucine intreciate con vaghi ed odoriferi fiori, che parea dicessero: "Deh fermati gentilissimo Apolo, che anche quivi riposandoti iscoprirai nuove maraviglie di un gran scavaliero e nuovo re".
{Vari e diversi latrocinii e come fossero fatti.} Uno portò un sacco di pane caldo caldo, con giuramento che lo aveva tratto fuori di un forno a tradimento, per le spalle, ch'ei teneva rivolte sulla strada e conobbe che 'l pane era ben cotto, perché gli favellò con la lingua del calore e dell'odore, molto ben noto ad ogni buon picaro.
Un altro per non star ozioso e tenere le man alla cintola rubbò dieci candelieri a lume d'una casa, per fare nelle mie nozze l'estremo di tutti i fiammeggianti lumi.
Un altro rubbò con maestrevole maniera un tapeto fino ad alcuni che dopo il giuocare alle carte s'erano addormentati e ciò fece con tanta leggiadria, che niuno di quegli lo sentì. Et il caso fu, che lo studente camariero picaro del re don Grullo come vidde li giuocatori bene addormentati, ad uno faceva carezze con la mano alla faccia e con l'altra caminava al suo intento di cavare una borsa della scarsella di colui; ma perché non avea maniera di accarezzare o perché non distese ben le dita della mano, perciò l'addormentato alquanto si risvegliò e tanto più, quanto sentì sopra di sé le ruote, anzi le mani di un nuovo orologio, che non caminava agiustatamente nella sua saccocccia (non per dare, ma per pigliare) onde cominciò a strepitare e strepitando a dar voci; era il nostro fin picaro tanto scaltrito ed accorto, che senza perdere la misura ed il tempo della battuta, né dimostrare turbazione alcuna, gli disse con graziosa gravità:
Signor mio, siccome io sono studente, sono anco amico di burle e se io fussi alcun ladrone di quelli che oggidì caminano per il mondo, non avrei usato queste mie nobili piacevolezze; mala maniera di negoziare avete ed il sonno turbato e non punto sicuro: non dubbiti, si quieti e dorma Vostra Signoria allegramente, che siamo buoni amici ed amici cari, ch'io intanto servirovi di sentinella e vegga l'effetto che come tale, con molta carità io vi copro.
E nello stesso tempo che ciò gli diceva, gli coperse la faccia col capello e specialmente glielo tirò bene sopra gli occhi, non tanto per coprirlo, quanto per porre a coperto il tapeto, che già avea disegnato di levar via senza esser veduto dal suo nuovo amico, col quale giuocando alla cieca e facendo la gattamorta, con un zelo volpinesco (proprio del picaresimo) bello bello si partì.
Il tapeto era tutto di seta ed oro, fato in Persia, con colori vivi e molto più vivaci, erano le vaghe figurine d'animaletti, di uccellami, di fiori e tanto naturali che parevano vivi, vivi, insomma era cosa da re, perché uno dei dormienti sopra la sua parola l'ebbe in prestito da una nobile matrona; ed il nostro picaro studente, ch'era un fin picarone tinti di grandissima picaresca, lo pigliò sopra la sua coscienza e sotto il braccio seco via lo portò.
{La robba è di chi la gode.} La robba non è di chi la fa, ma di chi la gode e vi è persona che la fa e chi la disfa e chi la trova fatta: {Oggidì ella è fuor di modo stimata.} affé, che oggidì specialmente colui ch'è senza robba, è un castrone senza lana: anzi la robba è il primo sangue, onde un poeta disse:
Est sanguis, atque spiritus pecunia,
Mortalibus, que nulla cui sit copia,
Vivos pererrat inter umbra mortui.
{Ognuno cerca di levar l'altrui.} Per far dell'altrui sua cosa propria si tolerano gran cose. Quanti degli antichi regi hanno perturbato la quiete altrui, non per altro che per usurpare a questo ed a quello il loro; è tanto è caminato innanzi, che da cento anni in qua ne rende veritiera testimonianza il Mondo Nuovo, col cui oro in più parti dell'Europa sono state tentate varie, diverse, inusitate e non imaginabili azioni e fallaci imprese, notate a perpetua memoria da' celebri scrittori.
{Chi l'intende, l'intende.} Un altro picaro addottorato per esser solennissimo vigliaccone, quivi se ne venne con un tizzone ardente, onde ciò veggendo mi fece star con grande ammirazione, perché non faceva altro che soffiare in esso ed a poco a poco appressatomici, sempre più gagliardamente soffiava e rideva, dicendo:
Rossa ed infiammata è la bella dama.
Non finirei così presto s'io minutamente volessi narrare le cose tante che fecero costoro e che quivi recarono questi furbacchioni. Non mi maraviglio se non d'una cosa: come non portassero di tutto punto le castella, li villagi intieri, con le muraglie, palaggi e case, come stavano o come fece Giove, quando scese del cielo a pigliare il suo caro Ganimede, che per onorarlo di più lo fece suo coppiere e coppier maggiore. Udite come.
Finge Ovidio ed altri poeti esser stato violentemente rapito da un'aquila, {Libro VI e X Metamorfosi delle sue favole de' dei degli antichi.} e portato in cielo, perch'egli servisse da coppiere a Giove, in luogo di Ebe, figliuola di Giunone.
Fu Ganimede figliuolo di Tros, che per altro nome si chiamò Laomedonte, re terzo di Troia. Onde essendo egli in quei tempi d'ammirabile e non più udita bellezza fu trasferito in cielo, accioché servisse a Giove, {Iliade XX.} come dice Omero.
{Libro III Argonauti.} Altri, come Apollonio, dicono che non fu collà portato accioché fusse paggio o coppiere di Giove, ma solo perché godesse quella deità e conversasse co' dei. Fu egli rubbato in un monte della Frigia, nominato Ida nell'andare alla cima del monte, {Libro V Eneide} come dice Virgilio ne' quattro versi che comiciano:
Intextusque puer, etc.
Altri dicono ch'ei fu rubbato nel promontorio Dardanio. {Libro XIV Geografia.} Strabone dice che ne' campi o campagne Priapee. Altri affermano che Giove convertito in aquila lo portò in cielo. Altri, che né da Giove, né dall'aquila, né da altri dei fu rubbato Ganimede, ma bensì da Tantalo re della Frisia.
Per questa favola vollero i savi dipingere un uomo prudente. Addattando che Ganimede amato da Giove, è un dire che l'uomo prudente è amato da Dio. E questo solo è quello che arriva con la sapienza, l'uomo savio l'imita, essendo virtuoso.
Dissero che Ganimede fu bellissimo, perché l'anima dell'uomo prudente, che non è punto macchiata con le sporcizie umane, è bellissima nella presenza di Dio: ed essendo tale facilmente è rubbato dalla divina bontà.
L'essere rubbato Ganimede, è accioché sappiamo che Iddio priva il mondo delle cose che più gli piacciono e ch'egli più istima come che sia indegno di esse.
Di Ebe in altro luogo a suo proposito diremo la istoria e la sua moralità. Ritorniamo a me, povera picara Giustina.
Già tutti si unirono. Vedetimi quivi, con tutto il picaresco consiglio congregato per decretare a danno della povera Giustina, che in questa occasione era il bersaglio o la quintana di tanti cervelli pazzi, pazzi. Ma io che non ero pazza, come loro, andavo sempre più rinforzando le mie traccie ed aggiustando vieppiù i miei dissegni e rinvigorendo il mio gran coraggio, come ardita ed animosa capitana e tutta la mia intenzione intorno a ciò era contra lo scavallerato cavalliero ed ammiraglio don Grullo, il quale tanto fisso mi tenea la faccia e gli occhi adosso, che neanco potevo muovere le labra della bocca, ch'egli non se ne accorgesse talmente, che confiscato m'avea la bocca, la lingua e l'udito.
{La levarono di peso giù della carretta.} Giunti ed uniti che furono insieme mi levarono giù della carretta e portaronmi sopra le loro spalle, come un contradittore di catedra o per meglio dire, come catedra d'un contradittore. Lo scavalerato ammiraglio con maestevole e castigliana gravità, attentamente guardava se ad alcuno de' portatori gli si sdrucciolava la mano per toccarmi o abbasso o a mezo o ad alto. Mira fin dove arriva il diavolo!
Finalmente mi posero presso il mio re. Io, con l'autorità ch'avevo, ordinai che fusse narrato con bella maniera qualche ingegnosa e nobile azione, per gustevole trattenimento, infintantoché la mensa si andava ponendo all'ordine. Altri fanno le ricreazioni, dopo d'aver ricreato il corpo, per ricreare poscia lo spirito; ma io volli prima animare, inanimare e ricreare con più vivacità lo spirito, per sempre più prolongare il tempo, che veramente era un più tirare l'acqua al mio molino: e perciò ordinai, come regina ch'io ero a quel punto, che al re don Grullo mio signore ed a me la muy illustre signora Giustina rappresentassero alcuna azione eroica,
:
Le notabili azioni di Aiace ed Ulisse rapresentate innanzi al nuovo re de' picari don Grullo ed alla regina Giustina Diez la gran picara.
Oh Giove, o baroni greci, sapete pure come io fui il primo a prendere porto in questo lito e come Ettore ne venne incontro, il quale poscia ch'ebbe fatto de' nostri miserabile stragge, volle porre il fuoco nella nostra armata: onde io con le forze del mio robusto corpo me gli opposi e tanto lo strinsi, costrinsi ed astrinsi combattendo, che in quel giorno schiffammo gran pericoli, a beneficio della patria nostra. Dimandatene a' governatori delle nostre navi. Onde però Dares troiano nelle guerre avezzo osava dire che mai Ettore ebbe da fare con un sol uomo che tanto lo stringesse quanto Aiace.
, che ogni dì più crescendo la ferita menava gran puzzore e perciò era di gran tormento a Greci: i quali per parere di Ulisse lo lasciarono sopra un'isola deserta, dove è una profonda selva, in cui egli dimorando si pasce degli uccelli che ammazza con l'arco e delle lor piume si veste.
Dopo questo l'altro che rappresentava la persona d'Ulisse, levatosi in piede a guisa d'uomo grave e sapiente, pose gli occhi in terra, poscia levatogli con modo dimesso riguardò pietosamente tutti i circostanti senza formar parola, per accattar benevolenza, indi con acconcie parole così prese a dire.
Se il nostro Achille, o miei signori, fusse vivo, come tutti desideriamo, non accaderebbe fare altra contesa all'arme sue, perché, siccome egli le possederebbe, noi ancora possederemmo lui. (E qui fece sembiante di singhiozzare e pianger forte, per accattare maggior benevolenza)
Ma perché l'iniqua sorte n'ha spogliato della sua gran possanza, che è adunque che più debba succedere ad Achille, di colui che quivi condusse Achille? Però signori miei prego che vi piaccia che il rozzo parlare e la grossezza e goffezza della lingua che aiace stesso confessa, non li sia giovevole:
Oltra di questo dovete pur ricordarvi, come dovendo voi venire a Troia, non potevamo aver venti opportuni per la partita e dallo oracolo fatti certi che per aver venti bisognava placar la dea Diana co 'l sangue di Ifigenia figliuola di Agamennone, perciò che la dea era sdegnata con esso Agamennone, perché egli le aveva uccisa la sua cerva: onde io tanto feci, che lui fu contento donarmi la figlia, ma poscia (e qui fu tutta la difficoltà) la cavai delle tenere mani della madre, sotto colore di dovernela mandare a marito ad uno de' più prestanti eroi di tutta la Grecia e così fu sacrificata, onde soffiarono i venti in nostro favore che ne condussero qui, dove tanto ci siamo adoperati che Troia non può più durare, però tutte queste si possano dir opere mie, poiché per il mio solo operare siete quivi arrivati.
Sapete ancora come andai intrepidamente nella città di Troia dinanzi al re Priamo ed accusando Paris del violato ospizio dimandai che Elena mi fusse restituita insiema con la preda, protestandoli che non lo facendo gliene incontrerebbe male; e passai tanto avanti nel dire, che Paris co' fratelli mi assalirono, dove se non mi fusse giovato il saper dir bene le mie ragioni, m'averebbero ucciso e lo sa Menelao, che si ritrovò presente a tanto pericolo. Che accade adunque, che io rinovelli ciò che io ho fatto a utilità della republica?
e prevedendo con l'animo e provedendo sempre ove bisogna e però di tanto avanzo lui di quanto il capitano è da più del soldato.
Questa lunga filateria, che altri meglio direbbe diceria, non solo mi piacque, ma anzi gran diletto mi diede, perché considerando le azioni di costoro, io viddi un Aiace che presumeva vestirsi delle glorie altrui, usando la bravura per offuscare la mente soda e salda dell'Ulisse italiano, che con somma prudenza e con una flemma veramente italianissima e con la ragionevole e retta equità gli fece conoscere che qual è madre, tal è la figliuola e che tal minaccia, che ha paura.
Così fecero questi baroni di Campo di Fiore, di lega fina, per farmi vedere che erano calcanti eccellentissimi e che sapevano dar il filo ad un coltello, acciocché ben tagliasse e dicendo a chi tocca, tocca.
Affé che i manigoldi sono manigoldi e che gli uomini savi fanno le savie cose e sovente è prudenza singolare saper esser savio e pazzo a tempo e come ben si suol dire, commette al savio e lascia far a lui: perché, chi non lo sa, lo sappia, che con poco cervello si governo il mondo, ma quel poco dee esser pieno di rettitudine onorata e non come quello di costoro che furarono e furano tutto quello che potero e possono per servircene contra di me poco, anzi non poco accorta Giustina;
; e come dicea quello che quando bisognasse e'
farebbe gli occhi alle gatte: buona è la forza, ma meglio è l'ingegno, per operare qual si sia cosa, ma non già ad ruinas, ad rapinas, ad destructiones, che con questo vento non si conducono i passaggieri ove desiderano, perché il iusto vento distrugge le malvagità, come distrusse quelle del mio re don Grullo, che si preparava a sradicare tutto l'onor mio
.
Per assicurare adunque il mio dissegno, a poco, a poco e pian piano, se condo i passi e le occasioni (mentre mangiavamo) spesso gli dicevo:
Amici, bevete allegramente, bevete, ch'è buono affé.
In ciò mi ubbidirono i traditori ben bene. Io, con occhi ridenti miravo il mio ammiraglioscavaliero re de' Guidoni e facevo che bevesse con un vaso nobile di corno indorato, ma di buona tenuta e dicevogli:
Mio signore, brindesi!
Ed in ciò lo solecitavo non poco, facendogli tre e quattro brindesi l'uno appresso all'altro. Lo signor scavaliero Grullo s'iscusava di bere con una grazia ch'era sua special continenza naturale ed era un dire:
Facciami vostra signoria bere poco, perché io sono uno de' Grandi di Gierusalemme (e credo ch'egli non errasse).
Ma con tutto ch' e' non volesse, per compiacermi sempre bevea o poco o assai; bastarono questi molti pochi a fare unum satis, che gli offuscò il cervello di così fatta maniera, ch'egli aggiunse silabe all'abecedario della sua furbesca guidoneria; e così seguitando il gioco si ridusse ad aver trentauno, con il re in mano. Di un tanto favore sia reso grazie ad un pugno di sale, ch'io gettai nel boccale del suo vino.
Dicevami il vigliaccone:
Ahi Giustina mia, che mi sento nello stomaco una gran massa si sale, perché tutto è molto salato.
Et io tra me stessa dicevo:
affé ch'ei dice la verità.
Ma rispondendogli dissi:
Non può essere signore, eppure vossignoria dice la verità, che anche il vino pare del sapore della carne salata, le vivande sono troppo saporite.
Insomma vi so dire che ognuno era ben acconcio e di tutto punto; anzi, per meglio acconciarsi accrescevano il condimento regalandosi l'uno con l'altro ed a garra servendosi di coppiere e di tal maniera che non uomini, ma leoni parevano; solo il mio re don Grullo inghiottiva più sorsi di saliva, che d'ogni altra cosa e credo che nel guardarmi solamente ei consumasse una libra d'occhi e nel dirgli che presto s'ispedissero, un'altra di lingua ed ad ogni boccone ne tranguggiavano altri tanti e più di finissima guidoneria e sì fattamente, che le loro furberie multiplicavano più di cento per cento;
Spellate esto raratelli du don erante.
{Azioni diverse degli studenti ubbriachi.} Uno che non aveva saliera nelle mani, gettò quantità grande si sale in terra e quivi salmorizavasi carne di castrato che giuzzava e guzzava sopra l'erba, che sendo sopra un prato, pareva castrato verde e per esser sopra la terra pareva negro e tutto insieme era verdenegro.
Un altro faceva suppa nel vino con fette sottili di carne salata e per non isporcarsi o bagnarsi si serviva d'alcune ossa invece di dita, di forcina o di cucchiaro.
Altri bevevano in una scarpa, troppo nobil cosa sarebbe stata per simil gente, anzi in una ciabatta, perché questi scapestrati, se non al primo, al secondo rompevano i bicchieri, non già di vetro, né di cristallo, ma bensì di legno poco odorifero.
{Nobiltà di montagna quale.} Cotesta è una nobiltade di montagna, la più nobile che sia in tutte queste parti che per eccellenza di grandezza usano di bere, come fanno gli asini nelle secchie o conche di legno. Tutti sono hidalghi, cioè ben nati, cittadini e gentiluomini; sono come le dita delle mani, le parole non pagano dazio, ognuno s'aiuti co' suoi ferri. Et tanto s'aiutarono costoro nell'ubbidire al lor signore, che senza coscienza e verun rispetto usurparono le robbe altrui, come se sue fussero state: e non è maraviglia se scialacquavano e bagordavano con sì poco timore, riverenza ed onore, che peggio fare non potevano. Era robba rubbata, che presto va e poco si gode.
{Niuno s'ubbriaca del vino di casa.} Et vedendo il lor smisurato consumare e la ritiratezza civile del mio re don Grullo, che poco aveva bevuto, ancorché molto ubbriaco, posi silenzio generale, dicendo:
Caen, caen, invece di dire callen callen; ch'è a dire, cadete cadete, invece di dirgli, tacete, tacete (aggiungasi questa voce al vocabolario di Bargas, ch'è bella). Poteva ben dire, botte mia, vita mia ed è pur vero che niuno si ubbriaca mai del vin di casa; l'altrui è quello che fa gran danno. Averebbono bevuto Arno e Cinciglione, se d'acqua fusse divenuto vino. {Ogni grano d'uva ha tre vinacciuoli e che cosa siano.} Ma non sapevano eglino che ogni grano di uva ha tre vinacciuoli, uno di sanità, uno d'allegrezza ed uno di ubbriachezza.
Cotesti scapestrati vigliachi, come quelli ch'erano fitti e confitti nella terra di Babilonia, anzi nella loro istessa confusione, nulla rispondevano, perché non s'intendevano tra essi, né essi intendevano lui, né lui intendeva loro. Si poteva giuocare a chi più mal intende e peggio risponde: ciascuno di loro poteva ben dire io ti odo, ma non t'intendo. In simili linguaggi non vi trovarebbe il bandolo Vaquàtù. Cotesta era una matassa talmente intricata, che peggio era di un lamberinto: ma eglino erano più intricati che un pulcino nella stoppa.
Quello di che molto temei, che il carrettiero non gli precipitasse giù della carretta, perché anch'egli era molto ben acconcio e non meno di loro.
Egli così caminante e mobile de' piedi, che una ruota di mulino non va così presto come egli veloce andava e mutava gli piedi suoi: dava tali rivolgimenti e così presti che il vento è men veloce di lui e se urtava in alcuna cosa o cadeva per terra, era con tanto strepito e fracasso, che tanto non ne faceva Rodomonte combattendo:
Ahi mia signora, ch'io ballo e salto per vostro amore; ed in un medesimo punto ricadeva e nel levarsi in piedi ritornava a cadere e cadendo diceva:
O vel salasso o vella calderola.
In luogo di dire: "O bel salto o bella cavriola".
Si vedeva ben egli che le sue cadute erano di giusto peso e ch'era per l'ubbriachezza tutto sosopra e per iscusare la sua debolezza, il povero ammiraglio diceva:
Porti rason.
Ed io gli risposi:
A me per dire il vero, mercé alla diligenza ed accortezza mia, tutte le burle che gli feci, passarono bene e non furono di poca considerazione per effettuare i miei disegni. Quando lo vidi che a misura colma aveva preso l'orso e non andava innanzi, ma caminava all'indietro come fanno i gambari, mi posi a dargli tali urtoni e spinte, che lo ridussi alla carretta; e perché le mie spinte erano spesse e gagliarde, si querelava meco balbutendo con la doppia lingua, che maledetta quella parola che io potessi intendere mai.
Finalmente quando piacque a Dio salì sulla carretta tutto franto e con più sonno che amore: ma prima ch'egli vi montasse sopra, cadette molte volte dando percosse crudeli in terra. Eccolo sul carro lungo disteso ed acciò più presto e meglio dormisse, lo copersi con il suo mantello. La bertuccia dorme, alta e profondamente. Vedeteli qui tutti, non più uomini, ma guidoni e scimmiotti ubbriachissimi;
Moralità |
Gli uomini cattivi, pieni e colmi di vizi, senza punto porvi pensiero ubbidiscono al demonio e più di biona voglia si sottopongono a' suoi sateliti e diabolici ministri, che agli uomini dabbene, a' veri cristiani ed a' ministri di Dio. Quel è il padrone, a cui servono, tali sono i premi che tirano. Sappiasi che non ha il palio chi non corre: e non s'incoronase non chi combatte virtuosamente.
DEGLI UBBRIACHI GUIDONI BURLATI
Octava de consonantes hinchados, y difficiles
La fama con sonora y clara trompa
publique por princesa de la trampa
la gran Justina Diez, que con gran pompa
vuelve su rebenque en sceptro: y le estampa,
la que usa del rebenque como trompa,
la que llueve azotes, y no escampa
la que de su carreta hace palenque
y sceptro lanza y trompa del rebenque.
O fama cuyo accento el orbe encampa
tu sombrío clarín no se interrompa,
hasta ver la picaresca estampa,
(no digo en papel puesta do se rompa,
o en letra de escribano que haga trampa.
Sino en peña, en quien no se corrompa)
Memoria de un triumfo tan illustre
Con el siguiente mote por mas lustre.
Mote.
Justina triumfó de ocho beodos,
echándolos del carro a azotes todos.
Giustina vedendo il re don Grullo con la sua camerata sepolto nell'ubbriachezza si vale dell'occasione e con leggiadra maniera facendoli fuggire tutti si libera dalle loro mani. Num. III.
Quando le necessitadi sono improvise e quasi che repentine e subite, la megliore risoluzione, {Donne uniche nel consigliare d'improviso.} il più sano rimedio ed i megliori consigli sono quegli che danno le donne. Et siccome l'uso della ragione è più pronto e presto così le nostre deliberazioni sono più mature, vivaci e risolute. Mille volte vederai in gravissimi affari offerirsi accidenti ed occasioni improvise e subite, a cui per ritrovargli il vero e presto rimedio, uniche ed illustri sono le donne.
{Simili.} Il discorso perfetto e le risoluzioni subite delle donne sono come il presto corso del coniglio, che nel principio è velocissimo; o come i rondoni o meglio, come la soldatesca francese, che ne' suoi primi assalti è presta ed invincibile. {Come dipinsero gli antichi la prima donna.}
Le donne, perché pensate che parlino presto e con voce sottile e scrivono grossamente, tardi e male? Io ve lo dirò. Ciò avviene perché quello che parlano, è improviso e nelle cose improvise e repentine sono elleno acute e sottili. Per questo hanno la loro pronunzia piacevole, dolce e sottile.
Ma perché nel considerare e pensare sono tarde nelle risoluzioni, perciò divengono incapaci nell'esplicare i loro concetti e nel prendere partito irresolute e massimamente quando s'ha da porre in carta, ch'è azione da considerarsi molto: e per questo scrivono pian piano, malamente e con noia.
Dico questo a proposito, perché io ebbi due occasioni per appigliarmi alla riuscita de' miei disegni: l'una fu il fuggirmene con ogni prestezza; e l'altra il vedermi ridotta ad uno estremo termine di strettezza e vaglia la verità, ad un sicuro porto e traccia di fare i fatti miei conforme al mio desio.
Laonde veggendo costoro tutti ubbriacchi marzi ed il carrettiere più di ogni altro, il primo colpo ch'io feci, fu il dargli due mostaccioni tremendi, perché lo viddi che tanto s'aveva egli scordato di me, quanto via più di se stesso. Con questi due colpi di diritto e di rovescio, gli scaturì dallo stomaco un ruscello di vino, con tanto impeto, fettore e furore, che pose gran spavento alle mie povere mule.
Subito gli rapii dalle mani il nervo e le redini con le quali governava le mule e battendolo fortemente con esso gettai giù del carro a terra lo stolto ubbriaco: ed il colpo fu così spaventevole, ch'egli restò privo della parola ed io senza alcun travaglio. Sentirono di ciò le mule grandissimo alleggierimento e consolazione, ma a me s'accrebbe il travaglio.
Veggendomi così vicina, cominciai, facendo il carrettiere, a bastonare le mule, le quali non essendo pigre, la strada buona e piacevole e sollecitandole con il nervo, caminarono così bene, che in meno di meza ora entrai nella mia terra con la carretta carica con quegli ubbriachi otri di vino, senza mai punto moversi, come se incastrati od inchiodati fussero stati nella stessa carretta. Quando io mi viddi nella mia terra cominciai a pensare quello ch'io dovevo fare; e molto più a quello ch'io dovevo dire nell'entrare con essi pel mezo di tutto quel popolo.
Questo mio pensiero non mi sodisfaceva e però giudicavo che meglio fusse il dire: chi v'è che voglia comperare otri pieni di vino? {Perro Grullo, cioè cane abbaiante.} O se meglio fusse il dire: ora entra tutta la guidoneria picaresca, con il picaro don Pietro Grullo (per altro nome nominato anche l'ammiraglio scavalierato). Ma per maggiormente ispaventargli e tanto più vendicarmi, nell'entrare io mi risolsi fortemente gridando dire: {Invenzione di Giustina per vendicarsi de' suoi rapitori.}
Et quanto dicevo era più che vero, essendo eglino picari vigliacchi della lega più fina della doppia spagnuola. gridai tanto forte e con una voce tanto risuonante, che potevo essere udita sono nel consiglio reale di Zamora.
Gli ubbriachi al suono rimbombante della mia strepitosa voce si risvegliarono tremanti e paurosi e tanto più veggendosi nel mezo della piazza di Mansiglia; onde come pecore e senza alcun riguardo anzi con grandissima furia si gettavano giù dalla carretta. Questo fu il primo atto della ubbriacante canaglia, a me di sommo gusto, perché nel gettarsi dalla carretta davano in mezo al fango stramazzoni orribili e dopo il primo cadette il secondo con così fiero colpo, che non solo s'isporcò come un porco, ma per essere il fango liquido diede al primo una risciacquata tale, che tutto lo dipinse e rinfrescò sì fattamente che l'un l'altro assomigliavano al picaro Gusmano, quando il signor Porco lo portò e precipitò in un lago di tenero fango dentro di Roma; ed a ciascun di loro avenne lo stesso, anzi pel desiderio che eglino avevano di fuggirsi dai miei rigorosi gridi e nervate, ricadendo e risciacquandosi davano così risuonanti e tuonanti cadute l'uno presso l'altro, che facevano un armonioso concerto;
Insomma a bene ed onoratamente vivere ci fa mestiero di porre studio di usare la modestia in tutte le azioni: se non vuoi salir ancor tu, lettor mio, come fecero questi vigliacchi, sopra la mia carretta ed essere spettacolo di riso a tutte le genti e se brami di fuggire da tanto biasimo, apprendi questi miei ammaestramenti, che qui ti pongo, che se gli osserverai, non sarai giuocolare de' fanciulli, come furono costoro.
Di quanto danno e disonore sia il soverchio bere vino; e l'astenersi di quanto giovamento sia.
Per bene ed onestamente conversare con gli uomini vale molto l'astenersi dalla copia del vino. {Utilità che apporta il vino e ciò come.} Se temperatamente il vino si beve, augumenta il calor nativo, assottiglia l'ingegno, fa penetrar il cibo, rallegra il cuore, conforta lo stomaco e ristaura le forze: {Danni che apporta la ubbriachezza.} ma se smoderatamente è bevutto a chi s'avezza debilita il capo, lega la mente, ottenebra la vista, rilassa i nervi, stempera il fegato, genera spasimo, abbatte i sensi, corrompe il fiato, muove il vomito, intrica la lingua e toglie la memoria.
Il vino toglie il senno, senza il quale ragionevolmente non si può conservare il re e perciò non mi si conviene il dilettarmene.
Ulderico di Casa Nuova, barone di Boemia ed il primo di quel regno d'auttorità e di ricchezze, non sì tosto che i suoi figliuoli avevano lasciato il latte, gli avezzò a bere vino: e non dava loro vini piccioli e leggieri, ma de' maggiori e de' più possenti, come Malvagie, Greco e simili. Onde essendo egli una volta dimandato dall'imperatore Federico perché ciò facesse, gli rispose: i miei figliuoli, quando saranno grandi, per essersi con loro gusto avvezzi a buonora al vino, sicuramente beranno quanto ne voranno, che non gli potrò nuocere, né far loro mal veruno. Tu l'intendi, disse l'imperatore; questo medesimo fece anco Mitridate: ma s'io avrò mai un figliuolo, s'egli non vorrà male al vino, io vorrò male a lui, perché il soverchio bere fa perdere la riputazione a ciuascuno e molto più a' principi.
Qual difetto scemò più la gloria del grande Alessandro, che l'essere disordinato bevitore ed amico del vino? Per quello uccise il più caro amico e fedele ch'egli avesse. Qual cosa cagionò la sanguinosa rissa de' Lapithi e de' Centauri? Quale (per tralasciar il favoloso essempio) ruppe il collo ad Elpenore? Quale fece precipitare Filostrato? Quale accelerò la morte ad Archesilao? Quale fece diventar pazzo Cleomene re de' Spartani? Quale fece perder il vigore a Lacide filosofo? Quale acciecò la vista a Dionigi il minore? Sono alcuni che si vantano d'essere non meno strenui bevitori di Tiberio, di Cicerone il Giovane, che fu detto Tricongio e di Bonoso, del quale diceva Aureliano che non per vincere, ma per bevere era nato: ma che importa se vinti o trenta coppe di vino passino per la loro vesica? Insomma è un sacco questo nostro corpo.
Arrigo conte di Gorizia, essendo fuor di casa il canevaio, si mise a dare de' calci nell'uscio della cantina, di che riprendendolo Febo conte della Torre, che allevato s'era seco e pregandolo che gli lasciasse levare la serratura, gli disse: sta' cheto, che son io che ho sete e bramo di bere e non tu.
Leonardo Felsechio era ito a Lips, città di studio: dimandando di lui un suo cugino ad un studente s'egli aveva fatto buon profitto nelle scienze, colui gli rispose: Leonardo sta bene ed è riuscito un gran valent'uomo, percioché fra mille e settecento scolari che siamo in quel studio, esso porta il vanto di bere. Pensò di dargli una buonissima nuova, perché i Tedeschi di Sassonia hanno per costume, quando si ragunano insieme, di mettere a sedere nel primo luogo coloro che più bevono e questi tali sono i più onorati tra loro. Il senno poco vale, ove abbonda il vino.
Il vino fu dato da Dio per essilarar l'animo, non per inebbriarlo: per uso non per abuso, consciosiaché il berne sconciamente infama la conversazione, disonora la vita ed avilisce la dignità. Male va quando i prencipi si caricano di vino, percioché abbandonano il governo de' regni loro e si dimenticano della giustizia. {Quanto nociva sia la vinosità a' maestrati e sacerdoti.} Ai ministri del Tabernacolo del Tempio si Salomone era interdetto il bever vino a fine che per sì vergognosa colpa la memoria e l'intelletto in loro non vacillasse e meglio il culto divino osservassero. Oggi molti uomini di magistrato e di grado diventandone bevitori solenni, col lor essempio allargano il freno alla licenziosa lascivia de' giovani.
Et le Romane antiche per lor bere
Contente furon d'acqua; e Daniello
Dispregiò cibo et acquistò sapere.
Gneo Domizio Romano, perché parve che la sua donna avesse bevuto più vino di quello che a lei per ristorarsi dell'infermità sua conveniva, le fece perder la dote. Et una gran matrona fu condannata a morir di fame per aver schiavato l'uscio della cantina. Tanto ebbero i Romani antichi in odio i vinosi, che per indegni dei publici onori e gradi li riputavano. Leggesi che a que' severi tempi Metello ruppe il capo alla donna sua con un bastone per aver ella bevuto vino. Il che conobbe dal fiato baciandola secondo l'uso permesso a' mariti e parenti, accioché sentissero se olivano di vino. Et pur non trovò chi lo riprendesse, nonché l'accusasse in giudizio.
Non ebbe la più forte machina Nicandro Scauro per espugnar il casto proponimento della sua Silvia, che per fortuna di mare gli era capitata, che la mescolanza di vini diversi e la dolcezza de' beveraggi, dalla quale tirata e presone più di quello che ad onesta giovane si richiedeva poco dopo ballando tutta riscaldata senza alcun ritegno di vergogna seco si giacque: ed anco
Infra i soavi e dilicati cibi,
Et le gran tazze d'or colme di vino
D'Enea s'innamorò la bella Dido.
Per questa ragione i persi, quando voleano pasteggiar e bever profusamente, non intromettean le lor donne, ma solo le meretrici. Nel celebrar il loro natale interdicevano il vino, come se fusse una gran scelerataggine il beverne. {Essempi di popoli intorno alla sobrietà.} I Candiotti ancora, li Spartani ed i Cartaginesi vietarono il vino a' soldati, accioché non avezzassero gli efferati animi loro all'insolenza. Et Platone fu di parere che alcuno, mentre durasse in magistrato, non ne bevesse. La qual colpa gli Ateniesi in un principe con la morte soleano punire. Più discreti furono gli Egizi, i quali usavano per legge di dare al loro re per ogni pasto una limitata misura di vino e niente più. Rigoroso fu il re Seleuco, al quale tanto dispiacque il vino, che lo vietava anco a gl'infermi v'era pena capitale ordinata da lui a chi ne bevea.
Non può esser uomo dabbene colui che speso s'inebbria (diceva Zenone stoico) e perciò non è sicuro chi gli affida secreto; ma non però sempre chi s'inebbria rivela i secreti. S'inebbriarono Pisone e Cosso governatori di Roma, eppur mai non si lasciarono uscir di bocca cosa che Augusto e Tiberio a loro accomodata in secreto avessero. Ma questo fu (si può dire) miracolo. L'animo non è in suo potere quando è soperchiato dal vino. Come una bote piena di mosto, se non ha come essalare, scoppia e tutto quello che tien di riposto dentro si spalanca e divulga. Come non ponno ritener il cibo quegli che caricato s'hanno di vino, così non ponno serbare secreti che non gli communichino.
Laonde maraviglia non è se le femine, che per vergogna si rimangono di peccare, quanto prima sono tocche dal vino, senza un rossore al mondo si spogliano della propria onestà. Né perciò cosa si può veder più sozza d'una femina ubbriaca. Cresce nel bere la superbia all'insolente e la violenza al crudele, la libidine all'impudico, la malignità all'invidioso ed al maledico la mordacità. Onde non senza cagione la mensa fu addimandata martorio, facendo più cose confessar il vino, che la fune.
puzzolente l'ammorba. S'addormenta alla fine a guisa di porco russando si fa sentire e quando pur si sveglia e smaltito n'ha l'imbriacatura facendo del giorno notte, perduto quel diletto che prima tracanando sentiva, sente a mormorare i famigliari di casa; la moglie confusa dolersi del disonor suo, gli amici che lo riprendono, i nemici che se ne ridono.
Qual vita mi si può mostrare più miserabile ed infelice di questa? L'essere beffato il giorno ed all'imbrunir della sera seguente ricadere nel medesimo fallo, parvi che sia un'insania d'ogni castigo degna? Madre degli adulterii e delle fornicazioni è l'ubbriachezza, ignominia de' convitti, danno de' poveri, ministra del demonio, tempesta del corpo, fanciullezza de' vecchi bevoni, naufraggio della vergogna, torbidezza de' sensi e fomento dell'ira e della crudeltà Non è cosa più turpe dell'ebbro, ridicolo ai servi, ridicolo ai nemici, miserabile agli amici, vituperabile appresso di tutti, piuttosto bestia che uomo è chi s'inebbria.
{Dissuasione dell'ubbriachezza.} A che fine col fumo e con la nebbia dei vapori del vino intenebrar la luce della mente? Indegni di perdono sono gli ebbri, posciaché a bell'opra perdono il dono dell'intelletto e della ragione, gravano il capo e cattivano l'anima. Un cane, un asino è miglior assai dell'ubbriaco e più tollerabile.
Et pur fu giusta ed escusabile la ebbriezza sua, come quella di Loth, allora che non sapendo con le figliuole gravato dal vino si giacque; peroché per divina disposizione fu la gravidanza loro permessa. Et per certo quei peccati ci condannano, i quali conoscendo e volendo facciamo gravissimo peccato ed inescusabile è inebriarsi: conoscendo noi la virtù del vino, il quale di soverchio bevuto mette in servitù l'uomo creato signore di tutte le altre creature e di ragionevole ed operatore di bene quasi morto e peggio che morto lo lascia.
I morti non ponno operare né ben, né male, gli ebbri solamente sogliono operare male. Non si trovano trattati sì sconciamente quelli che piegati dalla battaglia all'alloggiamento portati sono, come l'ubbriaco. Ognuno lo biasima, ognuno lo schernisce e lo maledice, chi pecora e chi buffalo, chi di viver indegno e chi escremento di natura lo chiama. Et perciò disse il savio: il principio della vita dell'uomo è l'acqua, il pane, la veste, la casa e per difenderlo non solo dalle ingiurie del cielo, ma per riparo di chi s'inebria, accioché non vada fuori e come svergognato istrione presentatosi in scena sia beffato dal mondo, ma da' suoi sia ritenuto ed all'altrui vista nascosto.
Il vino è opera di Dio, ma l'ubbriachezza è opera del diavolo: non sa l'uomo come diventare più vile e sordido delle bestie se con l'inondar del vino le viscere non seguita l'ubbriachezza, fonte ed origine di tutti i mali. Non sa egli che i viziosi ed ebbri non possederanno il regno di Dio. O vituperevole costume de' cristiani, posciaché ne' più sontuosi e regali convitti non chi meglio tace o meglio parla, ma chi più beve, più glorioso si parte e massimamente quando più coppe votate di vino indomiti dal vino si partono.
Confessano Cristo i Tedeschi ed i Boemi e lo ingiuriano molti di loro stramegiando col vino, del quale sono tanto vaghi. Ma peggio è, che l'Italia altre volte frugale e sobria va imitando il costume barbaro con lo sfidarsi a bere altrettanto. A me pare che non uomini, ma piuttosto bigoncie di vino siano. Essi quanto più bevono, tanto più s'infiammano e cresce a loro la sete; anzi per più adescarla sogliono ai salsumi ricorrere; ma dietro al diletto segue il supplizio, l'infermità del corpo, la cecità dell'animo, l'ignominia e l'offesa di Dio.
Se tanto nuoce l'inebbriarsi e non ci toglie la ingorda sete, se così brutto, se così dannoso è questo abuso, perché non rimanersene? Se senza danno reiterar mille volte i beveraggi a lor voglia potessero alcuni, credo che bramerebbono che i fiumi corressero tutti di vino: ma non guasterebbono e consumerebbono essi ogni cosa? E data la convenevol misura del bevere e del mangiare e perché costoro, che servono al ventre, rotto il serraglio della naturale modestia si lasciano tiranneggiar dal vino? Soleva dire Pitagora, che nella vite nascono tre grappi, de' quali il primo reca piacere, il secondo inebbria ed il terzo è ingiurioso.
Platone essortava i discepoli suoi a specchiarsi quando erano ebbri, a fine che veggendosi la faccia simile a furibondo et a frenetico, si guardassero sì brutto vizio. Racconta un dotto grave, che la balia di sua madre, la quale sì per li buoni costumi, sì per la vecchiaia, sì per la cura che teneva di quelle e d'una fante giovane, era in venerazione tenuta, non solo non permetteva che bevessero vino fuori dell'ore che alla mensa del padre si mangiava, ma neanco che bevessero acqua per sete che avessero; e ciò faceva per non avezzarle a mal uso.
Si legge che Federico imperatore studiosissimo osservatore della temperanza et della sobrietà intendendo che Leonora sua consorte, la quale mai nella paterna casa non aveva gustato vino, averebbe agevolmente figliato, se nella Germania così freddo paese si fusse avezzata a beverne, disse che voleva aver piuttosto una moglie sterile, che vinosa.
Un gentiluomo promettendo vin dolce racente al signor Giovanni dalla Frata, accioché venisse con seco a cena, rispose:
A che proposito questo, poiché più se ne consumerà e cosa mi potrebbe far dire che ad onesto giovane disdirebbe?
Risposta per certo degna di viril animo e non punto delizioso. Il ventre che bolle per molto vino di leggiero trascende a libidine. Ho pensato nel cuor mio (dice il savio) di raffrenar la mia carne dal vino a fine di applicar l'animo alla dottrina. Essendo dunque la sobrietà così unita con la sapienza e con stretto legame congiunta, non è cosa convenevole a studiosi il darsi a gareggiare con le tazze in mano.
Se i garzoni si caricano di vino, divengono rozzi d'ingegno e pigri e crescono meno. Ma se il vino smisuratamente bevuto confonde la memoria, volge sossopra la ragione, offusca l'intelletto, conduce l'errore e reca seco l'ignoranza, perché non beverlo moderatamente? Mi ricorda che un gentiluomo d'acutissimo ingegno in un tal modo scrisse ad un suo amico, che lasciato lo studio, si era dato alle taverne. Io ho compassione di te, che posposto avevi ogni cosa a' studi; ora attendi a spender in banchetti li scudi. Tu servivi a' libri, ora compiacci ai labbri. Lo scrivere in bevere hai tramutato. Ora hai fama di valente bevitore, dove tu l'avevi d'acutissimo disputatore. Più studi ora ne' calici, che ne' codici, più dai opera ai ghiotti bocconi, che non solevi alle dotte lezioni. Mi pesa molto il dirti queste parole: ma son costretto per l'amor che ti porto a dirloti.
Ennio a cantar mai non si pose l'armi
Di Scipio, se non quando avea bevuto.
Ma conceder si può che i vecchi ed i poeti, gli uni per sostenere e rifocillar la debolezza del loro calore e gli altri per generar copia di spiriti e rallegrar il cuore (nascendo i versi d'animo lieto e sereno) bevano vino ottimo e spiritoso: ma non però tanto che per la soverchia copia contrario effetto ne segua.
Catone il minore soleva col vino dar bando alle molestie de' pensier gravi: ma non già come i Tartari caricarsene. Sangue della terra fu detto il vino, il quale agl'intemperati è come la cicuta velenoso; oltre che la notte con orrende e strane visioni e sogni li molesta. Più che tre volte non usarono i Romani ne' famigliari convitti di bere. I Greci furono più profusi e dopo pasto solevano sfidarsi e necessitarsi a votar bicchieri. Onde un lacedemone disse: si costringono forse qui anco gli uomini a mangiare?
Aristippo discepolo di Socrate disse ad un certo taverniere che si vantava di bever molto e non inebbriarsi: gran fatto non mi conti, poiché i muli fanno il medesimo. Quanto fusse biasimevole il vizio della vinosità fra Romani, {Moti diversi contro gli bevitori.} lo mostrò Cicerone con un arguto motto, percioché essendogli portato acqua a bere, mentre egli spasseggiava in piazza e veggendo Lucio Cotta censore, ch'era vinoso, disse: copritemi di grazia, accioché non mi veggia a bever acqua il censore e per ragione del suo sindicato non mi privi d'entrar in Senato.
Filocrate ed Eschine mandati ambasciatori a Filippo re di Macedonia in compagnia d'alcuni altri, come furono a casa ritornati, lodarono molto il re dell'aver egli succhiato molte tazze di vino. Onde Demostene così a loro disse: e non è gran maraviglia, posciaché anco le spongie hanno questa virtù.
Giocoso ed arguto fu il motto di Diogene Cinico, il quale nel veder casa da vendere, sopra l'uscio d'un prodigo bevone, disse: io sapeva bene che quell'ebbro del suo padrone vomitata l'avrebbe.
Li Spartani sobrissimi furono e dimandato un di loro perché bevessero sì poco, rispose: perché non ci convenga gir per consiglio ad altri. Mostruoso spettacolo in Roma furono i Baccanali, ne' quali gridando ed a guisa di fere urlando di pampani coronati uomini e donne scapigliate di notte tempo commetter solevano ogni disonestà. Tra queste brigate v'erano alcune divote di Bacco dette Menadi, le quali come inspiritate (tanto erano cacciate dalla vinosa licenza) correvano con certi torsi di edera e di vite e furiavano.
Dimandato Pitagora come un vinoso si potesse astenere dall'inebbriarsi, rispose:
Se spesso quelle cose considera e volge nell'animo che ha commesso mentre era ebbro.
Non è cosa che più ci rimova e distragga dall'ubbriachezza (disse Anacarside) del veder le pazzie degli ubbriachi. Ma sono molti i quali allettati dalla soavità del bere trascendono i prescritti confini della ragione e vanno a bell'opera accattando non quale vino conforti e giovi allo stomaco: ma quale sia più gustevole e provocativo al gusto, per berne copia maggiore.
. Fuggano quegli che aspirano all'alto grado della virtù, la coloro pazzia che empiendosi le vene di vino, si sotterrano vivi ed a Dio non vivendo si muoiono di perpetua morte; ma piuttosto ebbri del sangue dell'Agnello di Dio s'essercitino a gloria sua
.
Ma torniamo un poco all'ubbriacante e picara gentaglia, la quale tutta infangata s'era messa a tutta briglia correre, come se fussero stati cani che alla coda attaccato avessero raggi di fuoco, fatti con polvere d'archibugio. Ma stracchi e lassi dal correre, ritornando alquanto in se, consideravano se alcuna cosa gli mancava e veggendosi senza ferariuolo, capello, colaro, cinta, legaccie ed altre cose simili, facendo forza a se stessi ritornavano verso la carretta per pigliare le robbe loro.
A questo rumore corsero le genti, ma più degli altri fanciulli, i quali con gridi e voci sovratonanti di terrore li posero in discordia che non fu possibile poter riunire l'esercito loro, sicché squinternati e bastonati col sodo nervo di tal sorte si trovarono gli ubbriaconi ed accompagnati da strepitose fischiate e stridi, che fuggirono senza punto guardarsi adietro. Et se alcuno mi guardava ancorché di lontano, io allora davo una girata con la mia regal nervosa frusta e gli facevo tremare le budella nel corpo e sudare da capo a piedi ancorché di lontano.
; ch'è di tor l'altrui con ogni sorte d'astuzie e diabolici inganni: agnelletta sorella guardati. Consolati, che ben spesso avviene che chi cerca d'ingannar resta ingannato.
Sebbene questa è una consolazione che poco serve per noi misere donne, le quali per la nostra fragilità (dirò meglio) per la nostra leggierezza e vanità siamo tanto soggette agl'inganni, che di rado si trovano delle Giustine che la scappino: ed acciò che ti sia più facile il fuggir dalle loro reti e che possi imparar a spese d'altri, non ti sia grave di leggere la seguente favola e cavarne non la pele sola, ma il grasso ancora e la più intima midola con il più acuto della considerazione.
Novella favolosa, piacevole ed essemplare dell'inganno che fece il picaro Giove ad Alcmena e ad Anfitrione suo marito.
Credettero gli antichi savi della Grecia esser stato padre e principio della nobiltà loro Perseo figliuolo di Giove e di danae figliuola d'Acrisio. Di questo Perseo e di Andromeda sua consorte, nacque Gorgofonte e di Gorgofonte nacque Elettrione e di Elettrione nacque Eugrilio ed Alcmena, la quale fu madre d'Ercole il glorioso. Avendo adunque i Tebani grandissima guerra con certi popoli nominati Teleboici, perché avevano loro rubbato molte navi e fatto altri danni, fecero un grande apparecchio e mandarono loro adosso questo Eugrilio nobilissimo e fortissimo fra tutti i Tebani, capitano e duce della lor gente; il quale come come volse la trista sorte, nella espugnazione di certo presidio fu miseramente morto.
Furono adunque celebrate le nozze con poca festa per la recente morte d'Eugrilio: ma posciaché, sì come de' novelli sposi è usanza, furono per alquanti giorni dimorati in dilettevoli trastulli, Anfitrione, con buona grazia de' signori Tebani, si partì con un forte e numeroso esercito. Et passato un braccio di mare, andò adosso a questi Teleboici, i quali erano molto potenti ed avevano uno animoso signore detto Terella, onde seguirono fra di loro molte battaglie e crudelissime uccisioni. Finalmente combattendo un giorno avvenne che Anfitrione uccise Terella e perciò i Teleboici in fuga posti, si riserrarono nella città e poco poscia s'arresero con patti orrevoli, satisfacendo tutti i danni a' Tebani e fecero ricchi doni ad Anfitrione, fra quali fu una coppa d'oro per erte mirabile, la quale egli ricevé come cosa più di ogni altra carissima, con pensiero di farne dono ad Alcmena sua moglie.
Oh quanta festa mi farà la mia padrona, so che ella mi vestirà tutto di nuovo e darammi il beveraggio.
E così dicendo giunse sulla porta, dove il finto Sosia li disse:
Oh là, chi sei tu, che vai cercando?
Et egli:
Io son Sosia non lo vedi?
A cui Mercurio:
Tu di' le bugie, perché io son Sosia. No 'l vedi tu?
Riguardollo sottilmente allora il vero Sosia, poscia cominciarono fra di loro una gran contesa, giurando ed affermando ciascuno sé esser Sosia. Finalmente Mercurio gli dette di molte pugna, per il che parendo al vero Sosia d'essere male arrivato, disse a costui:
Tu che dici d'esser Sosia, dimmi per gli Dei, ciò che facesti all'ultima battaglia?
Avvisandosi con questo di poterlo corre in bugia.
Io, rispose Mercurio, andai al vascello del mio signor e quivi bevei una gran tazza di vino.
Parve questa al vero Sosia una tal maraviglia, che lo pose in dubbio di sé stesso; però come se fusse uscito da' gangheri, si rimirava tutto e parendoli pur d'esser Sosia diceva in fra sé: questa è pur la casa del mio padrone, questa è pur la contrada. Che vorrà adunque dir questo fatto? Et di nuovo avvisandosi di poter corre il finto Sosia in bugia, li disse:
Se tu mi sai dire quello che ultimamente fusse donato da' Teleboici al mio padrone e ciò che gliene fece, mi darò a creder che tu possi esser Sosia.
A cui Mercurio:
Poi che il mio signore fu uscito della terra e ritornato al padiglione, i Teleboici li mandarono ricchissimi doni, fra quali, uno che era vestito di verde, li presentò una bella coppa d'oro, la quale egli la diede a me ed io la riposi in una cassa che lui indi serrò e sigillò co 'l proprio anello.
Il vero Sosia allora non sapendo ove si fusse, disse:
Egli è forza che tu sii Sosia; però io me ne ritornerò al mio padrone e dirogli che madonna ha saputo il tutto da un altro Sosia.
E senza più ritornatosene al porto, raccontò quanto gli era accaduto ad Anfitrione, il quale credendolo ubbriacone lo mandò a dormire, dopo una lunga contesa seguita fra loro.
Non era anche apparito il giorno dopo la lunga e duplicata notte, quando Giove uscito del letto, si fece dar da Mercurio la coppa tolta ad Anfitrione e ad Alcmena la donò, poscia prese partenza da lei, la quale rimase gravida del magnanimo Alcide, avvenga che fusse prima gravida del marito. Ora quando fu il tempo, il vero Anfitrione venne trionfante in Tebe, dove fu da ciascuno con maravigliosa festa ricevuto; poscia andatosene a casa, Alcmena non si mosse altrimente per girli incontro, parendole di aver fatto ogni suo debito compitamente nella passata notte, di che egli si prese non picciolo sdegno e maraviglia, onde non poté tanto contenersi che così non le dicesse:
Ahi donna, è tanto tempo ch'io sono stato da te lontano a vendicare la morte di tuo fratello ed al presente fai del mio ritorno così poca stima?
E come, rispose elle, non t'ho io festeggiato assai questa passata notte.
Ohimè, disse Anfitrione tutto smarito, me non hai tu festeggiato: però che iersera cenai con Naucrate tuo parente e questa notte non mi sono mai partito del porto, come adunque puoi tu dir questo?
Sopra le quali parole dal sì al no vi fu da contendere assai, finalmente Alcmena così disse:
E come puoi tu dir non essere stato con meco, posciaché questa mattina avanti giorno donasti la coppa d'oro che a te fu donata da' Teleboici e mi raccontasti tutti i particolari della guerra e similmente il modo con che uccidesti Terella?
Oh Dei e come può esser questo, soggiunse Anfitrione.
E fatto quivi chiamar Sosia li fa recar la cassetta ove era la tazza riposta e vedela serrata e suggellata.
Dall'altra parte Alcmena, per Tessala sua donzella fa recar la coppa che credeva da Anfitrione esserle stata donata. Vede la coppa Anfitrione e tutto smarito apre la cassa e nulla ritrovandoci dice:
Per certo Alcmena o tu sei incantatrice o tu hai domestichezza di qualche incantatrice, onde mi vien fatta questa novella: nondimeno poco o niun conto tenendo della coppa, torna di nuovo a dire: che di' tu ch'io feci questa passata notte?
Ed ella:
Non sai tu?
Ma e' fu di bisogno che lei raccontasse particolarmente ogni successo: di che Anfitrione rimase oltramodo dolente e sospeso, in guisa che non sapeva immaginarsi questo fatto, percioché gli andava pur per l'animo che se Alcmena avesse operato con inganno, non si sarebbe da per sé palesata: nondimeno questo intendere ella essersi ben sollazzata la notte adietro, lo fece tanto trapassare i termini, che si diede a improperarla di adulterio. Onde conoscendo Alcmena che la cosa non andava da scherzo, si cominciò a dolere, facendo i maggior scongiuri del mondo, che non s'era con altro uomo sollazzata che seco: come fusse ben certa di dire il vero. Ma replicando pur Anfitrione ch'egli non era stato, amendue ebbero grandissimo dispiacere.
Finalmente fecero un poco di tregua, durante la quale ciascuno promise di giustificarsi con vere ragioni. Tuttavia conoscendo pur Anfitrione che gli era stata fraccata, non venendo pur Alcmena ad alcuna giustificazione che bona fusse, di nuovo tutto di mal talento ripieno, così le prese a dire:
Egli è pur forza che tu conoscessi cului che si giacque con teco, perché io t'assicuro che non fui quell'esso: né ti dare a credere che io voglia che la cosa passi così di leggiero, perché se tu non me la racconti amorevolmente, io farò richiamo al magistrato, senza riguardo alcuno della ricca dote che mi desti e farotti castigare per adultera.
Quantunque Alcmena si ritrovase la più scontenta donna del mondo, nondimeno confidandosi nella sua innocenza (peroché innocentissima si teneva) senza punto perdersi d'animo, così rispose:
Io sono onesta e pudica donna in guisa che mai rivolsi solamente il pensiero ad altro uomo fuor di te: e vanne dove ti pare, perché ogni tuo detto prenderò da scherzo, avvisandoti che dicendo di me cosa disonesta, tutta la vergogna sarà tua, perché a guisa di reo ti farò mentire. Né ti dare a credere che la mia robba sia stata la dote ch'io t'ho data: percioché il timore degli Dei, l'amor dei parenti, la concordia de' cognati, l'ubbidienza verso te, la liberalità verso i buoni, l'avere scacciato da me ogni illecito amore e finalmente l'onestà mia sono la vera dote ch'io m'ho recato meco.
Fece Anfitrione diversi pensieri udendo queste parole e finalmente a questo si attenne, di far morire Alcmena, posciaché avesse parturito: onde tenendo il cattivo animo celato, cominciò ogni dì più a dimostrarsi men turbato ed a farle carezze e festa: nondimeno ella neppur si degnava d'ascoltarlo per il grave sdegno in sé concetto. Ora essendo Alcmena vicina al parto, parve a Giove di doverla visitare e rimediare alla cosa: però tolto di nuovo forma d'Anfitrione, il qual era pur allora con Sosia andato fuori per sue bisogne e menato seco Mercurio come dianzi mutato in forma di Sosia, con ridicoloso modo s'appresentò ad Alcmena, facendo la più bella e serena fronte che fusse possibile per piacerle: ma ella da sé ributtandolo, egli così le prese a dire:
Alcmena cara, io ho fatto questo solamente per far prova dell'onestà tua intanto che assai mi duole il dispiacere che te n'hai preso: però essendo tu vicina al parto, ho deliberato di non lasciarti in questa amaritudine.
E così detto con mille dolci modi gli addimandò perdono dell'improperato adulterio, il qual perdono subito conciò il giuoco e fu fatta la pace. Allora Giove le domandò che dovesse apparecchiare i vasi per sacrificare e rendere i voti, ch'egli diceva aver fatti per conseguir la vittoria, affermando non avergli satisfatti prima, per lo sdegno avuto seco.
Fu adunque fatto il sacrificio, dopo il quale amendue entrarono in camera e raddopiarono la pace: indi sendo in assetto il desinare, Giove chiamò il finto Sosia e dissegli che andasse per Blestaro (qual era padrone del navilio sopra cui il vero Anfitrione ara ritornato dalla guerra) che venisse seco a desinare. Ritornò Mercurio in un baleno e disse fingendo che Blestaro aveva che fare; però soli desinarono Giove ed Alcmena. Alla quale dopo desinare sopravennero le pene del parto, onde tutta la casa andò sossopra: però recatosi Giove sulla porta, eccoti il vero Anfitrione e 'l vero Sosia e volendo entrare in casa, Giove prende pel braccio Anfitrione e:
Fermati, gli dice.
E:
Dove vai?
Dove vado? rispose Anfitrione, in casa mia vado.
In casa tua? rispose Giove, tu mi pari uscito di cervello, perché questa casa è mia, qua dentro è la mia moglie e tutte l'altre robbe mie.
Questa è la tua casa? soggiunse Anfitrione.
E volendo seguir più oltre sopravenne Blestaro per desinare, sendo stato chiamato dal vero Sosia, a cui il vero Anfitrione così disse:
Che ti pare o Blestaro di costui che dice esser me? E che la mia moglie, la mia casa e le mie robbe sono sue? Però, poiché tu sai ch'io sono, aitami ti prego contra questo uomo di Tessaglia, madre degl'incantamenti!
Dall'altra parte Giove racconta a Blestaro cose che altri che Anfitrione e lui non le sapevano, il quale non cessava di dire a esso Blestaro che non credesse a costui che non era Anfitrione.
La questione era grande e Blestaro mirando e rimirando or questo or quello, amendue Anfitrione affermava e come se si sognasse non sapeva che si fare: alla fine al vero Anfitrione rivoltosi disse:
Tu mi richiedi ch'io debba porgerti aita, ma quando riguardo ognuno di voi, non so ch'io mi debba aitare; però io ho fame e da fare altre facende, terminate da voi le vostre liti e partissi.
Giove allora entra in casa e serra la porta; Anfitrione picchia e fa grande istanza che gli sia aperto. Mercurio fattosi Sosia si fa alla finestra e come se fusse stolto con parole spiacevoli lo scaccia. Anfitrione si morde le labbia e tutto si dibatte minacciando e Sosia con un vaso d'acqua da capo a piedi tutto lo bagna. Il vero Sosia, che dal finto era stato battuto si sta di nascosto a vedere dicendo fra sé: tu mi tenevi imbriaco ed al presente vedi pure che non solamente un altro Sosia è in casa, ma un altro Anfitrione ancora, oh che bella festa! Nondimeno egli si tace dicendo, s'io mi scuopro crederassi me esser quello che l'abbia bagnato ed ucciderami.
, Alcmena gionse alle strette del parto; però come conviensi imprecò Giove che volesse porgerle aita. Laonde subito s'udì una voce, che disse:
Non temer donna, ch'io sono qui presente.
E dopo la voce sopravenne un grandissimo splendore, con un grandissimo ribombo in guisa che quanti erano in casa, caddero a terra mezi morti, fra quali cadde similmente Anfitrione, che era stato lasciato entrare in su questo punto dal finto Sosia; e finalmente per non tediarvi con questo miracolo, Alcmena partorì due figliuoli, il primo del marito e l'altro di Giove, che fu Ercole nominato, onde esso Giove datosi a conoscere accordò la cosa, ringraziandolo di tutto Anfitrione, fuorché dell'essersi giaciuto con Alcmena e via disparve.
Ora essendo Anfitrione ritornato con la moglie in buona pace, perché egli era ambizioso, pose ogni suo particolare pensiero in far nutrire Ercole avendo avuto da Giove, che i suoi miracolosi fatti renderebbero immortale e chiara la sua fama. Ma non potendo ritrovare tanto latte che fusse bastevole, di carni macinate di cinghiari, orsi e buoi lo nutriva. Essendo pervenuto nell'età d'anni quindici, per umana forza e sublime intelletto avanzava tutti gli uomini del suo tempo: percioché egli era ottimo grammatico, eccellente filosofo e perfettissimo astrologo. Et avenga che di tutte queste scienze si dilettasse, nondimeno più li piaceva adoperar le forze del corpo, nelle quali pari alcuno non ritrovava.
Ora accadde che essendosi un giorno in Tebe a onor di Bacco celebrato una solennissima festa, la vegnente notte Ercole fu raccolto da una nobilissima giovane ad amoroso trastullo: e la mattina poi, egli, come d'ogni riposo nimico, con bellissima compagnia di giovani uscì della città per andare a piacere. E perché ciascuno più volontieri segue quello che più li diletta e piace, però i suoi compagni presero quello esercizio che più andò loro per l'animo. Ma essendo comparsa a Ercole davanti una bellissima cerva, egli si pose a seguirla e cacciatala da un boschetto quivi vicino la ridusse al piano e dal piano al monte intanto che dietro a questo monte per lungo spazio seguendola soletta l'uccise.
Bellissimo e graziosissimo giovane, io certamente conosco comunque l'animo tuo sia d'ogni intorno afflitto, non sapendo quai desideri debbi seguire in questa mondana sorte, onde io sono venuta qui per sciorti da questo dubbio, accioché tu segui me come padrona e duce della tua vita: percioché io ti condurrò per un leggierissimo sentiero, da ogni parte dilettevole e d'ogni suavità ripieno, senza alcuna molestia, né fatica, in cui ritroverai tutti quei diletti che immaginar si possano in guisa che mai sentirai cosa che ti dispiaccia.
Pensato che ebbe Ercole alquanto sopra le promesse di costei, addimandolle come avesse nome ed ella:
Dagli amici miei e da quelli che seguono le mie leggi, sono (disse) chiamata Felicità, benché alcuni, i quali per la lor faticosa vita si sono fatti di me nimici, mi chiamino Improbità.
Dopo questo l'altra donna naturalmente bella, savia ed onesta, così a favellare incominciò:
O magnanimo e valoroso figliuol di Giove, come prima m'è stato manifesto chi tu sei e la indole e 'l tuo sublime ingegno attissimo ad apprender tutte quelle cose che d'uno ottimo principe sono degne, sono venuta da te con certa speranza, che debbi del tutto rimuoverti dalle cose infime e terrene ed attendere alle sublimi e vere; il che facilmente ti verrà fatto se seguirai le mie vestigie: che seguendole, sarai fatto principe di cose oneste, probatissime e perfette, onde con l'opra tua mi renderai appo tutte le genti più chiara, onorata e di maggiore riverenza degna.
E finalmente volendo far buona complessione e mantenere il corpo sano e robusto, accioché sopravenendo il bisogno l'intelletto tuo sia proprio ministro di te medesimo, non lasciar per l'ozio divenir vili le membra tue, anzi procura di renderle agili e strenue con le fatiche e frequentissimi sudori.
Non avea ancor costei la sua orazione terminata, quando l'altra con queste parole interpellandola disse:
Ah Ercole mio! Par che tu non conosca quante miserie e fatiche ti proponga questa femina di buona fede, con poco onore e men frutto in questo breve viaggio della nostra vita. Accostati adunque a me ch'io ti condurrò per una via piena d'ogni riposo e piacere come t'ho detto alla vera felicità.
Allora l'altra donna apellata la Virtù con voce piena d'armonia esclamando disse:
Oh fede degli Dei e degli uomini! E che cosa è in te, che buona e comoda sia, oh infelice feminella? Qual dolcezza si può sentir da te, che non fai cosa che abbia ombra d'alcun bene, ufficio d'alcuna laude ed oggetto d'alcuna gloria? E che è peggio non sai anche misurare i tempi delle tue avidità e del tuo lussuriare.
Quelli che constantemente perseverano nella mia amicizia, senza cercare superflue imbandigioni e bevande suavissime, si pascono; e benché siano stimolati dallo appetito, la virtù mia è cagione di fare loro sofferire e ributtare ognuna di queste simil cose: onde mentre che dormono menano placidi sonni, per averli compartiti con le faticose vigilie. Per l'essercizio mio i giovanetti ascoltano il consiglio dei vecchi, i quali sono poscia compunti di grandissima allegrezza veggendo essi giovanetti per gli loro ammaestramenti pervenire a grandissimi onori.
Poscia che ebbe così detto, il magnanimo Ercole finalmente dispregiando i diletti e le lusinghe dell'una, si dispose con possibil diligenza voler seguire i ricordi dell'altra, avvenga che se gli proponessero intolerabili fatiche e sudori; conoscendo, quantunque ei fosse giovanetto, che questo modo di vivere gli prometteva immortale e sempiterno onore, al quale affermava tutti gli uomini d'alto valore aver rivolto l'animo.
Noi adunque come emuli della gloria di questo magnanimo eroe che più oltre della promessa, alli quindici anni della età sua v'ho condutto e così bene instituto; dobbiamo sempre dare opera alla virtù, madre della quale è la verità, che va sempre di bianchissimi panni vestita (a confusione di coloro che amano il pessimo vizio della adulazione, comunque ella sia un lezzo dinanzi a Dio ed uno orrendo mostro fra gli uomini) e che dagli antichi fu creduta dea e come tale adorata;
in forma di pellegrina che via con fretta camini, non ritrovando stanza fra di noi, né alcuno che la raccoglia: percioché come ella è con la povertà congiunta, va pellegrinando in guisa che a lei avviene come a quella statua che ancor si riposa nella bottega dello statuario, alla quale non vengono porti onori, né incensi, finché in luogo convenevole e solenne non viene collocata.
. Ritorno in Vigliada quivi aspettami.
Don Pietro Grullo nella radunanza di Vigliada è burlato da' suoi concameranti.
Eccomi ritornata in Vigliada, ove dimorando quei guidoni facevano il furbesco lor conseglio contra di me e sopra la burla fattagli e nel discorrere non finivano di farsi ciascun di loro le mille croci, lodandomi e chiamandomi la Villana de las Borlas, y de las Burlas, che per l'uno e l'altro nome mi addimandavano; de las Borlas, perch'io portava al collo una collana di pater nostri di legno, ma grossi, all'uso di montagna e come giovanetta montagnesca, allora che mi presero o almeno quando se lo pensarono, ma presi e dalla Villana de las Borlas borlati; de las Burlas, per le molte burle che io li feci da che li posi nella midolla della bote e che di guidoni divennero scimmioni e squinternati come mastelle senza cerchi, lasciaigli però vestiti, che in verità non lo meritavano.
Dopo che questi guidoni si furono congregati e ch'ebbero trattato delle cose passate le quali come scandolose e pregiudiziali al buon governo ed al guidonesco profitto privarono il picaro don Perro Grullo ammiraglio del Perù, di tutte le dignitadi e specialmente dell'ammiragliato di tutta la calcanteria picaresca e ciò con tante cerimonie e solennità, come se lo privassero veramente d'alcuno insigne officio; e con publiche gride, a suono di trombe gli levarono tutti gli offici e malefici, per molti anni precisamente e altri ad arbitrio, il che egli sentì con tanto sentimento come se veramente fusse stato privato d'alcun vero ed illustrissimo carico di superiorità; che perciò si verifica quel proverbio: "che quella dignità che più si cerca, più si sente". Privato ch'egli fu, dicevangli:
Fratello, non merita piazza chi tanto vituperosamente si partì da quella di Mansiglia; tu ti desti della zappa sui piedi, del tuo male tu stesso ne fusti ministro; tu avevi bene e t'appigliasti al male; e chi vuol il mal, abbia anco il malanno e la mala Pasqua: non sai chi contra a Dio gitta pietra, in capo gli ritorna? Tu te l'hai comperata a' danari contanti, percioché chi potendo stare cade tra via, se si rompe il collo, suo danno sia. Fratellino, è mala cosa esser picaro vigliacco, ma peggio è l'esser conosciuto tale: tu lo cercasti, l'hai trovato, godilo e statene.
Il meschino dello sgraduato ammiraglio restò privo d'ogni autorità e dignità, né altro gli rimase che aglio e l'ammirazione in costoro che lo videro spogliato della sua picaresca dignità; la qual ammirazione agliesca essendo cosa pestilenziale infettò ed appestò tutto il paese, di modo tale che tutti furono ammorbati da questo fettore, che tanto si dilatò che tutti putivano e putiscono d'aglio; e tanto si è internato nelle lor midolle e nelle ossa loro, che sempre dormendo, vigilando, trattando e negoziando, in tutte le lor azioni hanno l'aglio in seno e nel cuore; ed in altri è rimasto e rimane l'ammirare e molto bene mirare le odorifere virtù altrui e le agliesche virtudi loro. Non ti ammirare se la virtù, che rendeva già soavissimo odore, ora putisca oltremodo d'aglio e di modo tale che ogni azione ed operazione odora d'aglio.
Et non è maraviglia se al povero smaragliato gli rimase cotesto odore, le beffe e le burle, perché subito restò egli d'ogni dignità picaresca privo (eccetto che del picante agliante). Quelli che già l'ubbidivano, {Don Grullo è burlato da' suoi} ora lo rimproveravano, dandogli gridori, facendoli mille burle, stridandogli e rumoreggiandogli d'intorno, tanto e così fieramente, che il meschin picaro, ritornato don Perro grullo, sentì e nel sentire, gli tremò nell'anima il cuor dell'onore, sicché sprofondò nell'abisso del don ed egli rimasse qual nacque, agliante uomo ignudo. Et per vieppiù schernirlo, uno gli diceva:
Ove si trova oggi quella gran matrona che qual imperatrice inchinati a' suoi piedi le abbiamo da pagar tributo? Meglio diressimo qual emperrada, emperadera, cioè incagnata, incagnatrice, a' cui piedi appresentassimo gli otri di vino, dalla quale con le crudeli sferzate nervesche fossimo tanto bene governati, come sgovernati.
Un altro gli disse:
Questa la chiamarete voi polliparca? Non certo. Io la chiamo grulliparca, poiché Giustina fu la parca del Grullo, cioè de' pollami che per lui rubbammo e de' strepiti e de' gridori di lui e di tutta la sua camerata.
Un altro gli disse:
Camerata (cioè la sua compagnia) come era quella d'oggi? Io rinasco come fenice dalle ceneri, c'ha fatto Giustina con il suo immortale rigore nervante, col quale m'ha levato, anzi abbruciato le tre potenze dell'anima. Ma più proprio sarebbe dire: io rinasco con dolore di nervo del ventre d'una carretta, col capo abbasso ed i piedi in alto; e veramente fussimo un aborto della carretta, che come panno cotonato, ci cotonò così bene Giustina con la nervosa sferza, facendoci nelle carni cotonature tali, che erano pelose ed alte due dita.
Un altro gli disse:
Oggi la rara fenice anzi la mia gustosa e piacevole Giustina, fa piatto al gustoso desiderio mio. Oh sempliciotto, hai detto bene ch'ella ne' piatti ti diede tanto da cibarti e ne' boccali tanto da bere, che come fuoco accese ed arse la lucerna del tuo intelletto, che divenisti un goloso e ubbriaco scimmiotto.
Un altro diceva:
Viva il signor ammiraglio rimediatore degli orfani e gli orfani siano i diavoli che ti bastonino; e tal rimedio ed aiuto venghi alla casa tua picarone vigliacco.
Un altro disse:
Ella è intiera come quando nacque e questo giuro e approvo io, che la intiera è lei e li rotti e fracassati siamo noialtri.
Un altro disse:
Via presto, che il Dio d'amore ha le ali; giuro a dieci, che anche lei con la sua sferza faceva volare la carretta.
Un altro vedendo che trapassavano il punto nel dargli la baia in parte verso tutti coloro dimostrava per lui molta afflizione ed in parte schernendolo disse:
Caen, caen, murria perra, es essa en dar bayas al rasante.
Allora gli toccò il tasto della ubbriachezza, quando si credea di dire: callen callen daos mucha prissa, che in sua vece, disse: caen, caen datos murria perra, etc.
Insomma a garra l'uno dell'altro gli dissero e fecero tante burle che lo traffissero dentro e fuori in ogni parte, che per esser tante, le lascio alla discrezione del più indiscreto picaro che si trovi in tutta Biscaglia e suoi convicini, perché ivi ci sono censuratori delle azioni e fatiche altrui. Non lasciarono cosa del meschino che non toccassero, né punto che non glosassero, infino a dirgli: "ben pare che tu sii de' rabini di Gierusalemme, nato e nutrito in quelle parti, perché sei vile e codardo", sebbene in altro sei di settanta carratti essendo eglino viziosi, increduli, raspanti, aglianti, furanti e picarantissimi picaranti. Con il tanto loro perversamente dire, lo risvegliarono di maniera tale, che sdegnato e svergognato se ne fuggì di quella terra.
Nonostante questo aveva costui meco un naturale troppo naturale ed era che s'egli fusse andato all'Isola de' gatti mamoni e de' scimmiotti, io allora sarei andata all'Isola de' papagalli.
Qual sarà quella bagaccia che vada ad incontrar un toro ferito di zagaglia?
{Giunge a casa sua, dove è ricevuta con gran festa.} Finalmente giunsi a casa mia e vi fui accettata e raccolta, come s'io fussi stata una reggina, anzi un imperadore vittorioso e trionfante. Io ero accompagnata da molta gente e molto più da giovanotti, ancorché rozzi, erano però vivaci e pizzicavano de' costumi picareschi; percioché come pantera che con l'odorifero odore che gli esce dalla bocca, rende tal fragranza che gli altri animali quasi che assorti ovunque ella va sempre la seguitano: così io, con l'odorato gustoso delle mie graziose virtudi picaresche, più che mosciolini al vino mi seguirono e più che piatole mi si attaccarono,
Siate voi le benvenuta e quei picaroni li malandati.
E in ciò dire si sbracciavano e nello sbracciarsi puramente mi pizzicavano, ma non tanto puri che con quel loro modo di fare, facevanmi nascere un certo prurito, che sino nell'interno pareva che mi pizzicasse e totalmente mi restò quel pizzicore, che ancora oggidì lo sento.
.
Il ragionamento molto mi dilettava, onde perché non così tosto se gli desse fine, così presi a dirgli. Signori amorevoli, poiché così cortesemente m'avete onorata in visitarmi e tra di voi avete finora così onoratamente discorso; pregovi farmi grazia che il rimanente di questa felice giornata sia dispensata tra di voi in narrare alcun ammirabile avvenimento e cadauno racconti il suo: il primo sarà don Innico; il secondo toccarà a don Alonso; il terzo a don Velasco; il quarto a don Fernando; il quinto a don Pietro; il sesto e d'ultimo a don Figueroa: che di tanta gentilezza, io e tutti questi nostri amici che vi fanno onorevole ghirlanda ve ne rimarremo con molto obligo ed attenti staremo ad udirvi.
Contenti e pronti furono quegli hidalghi e don Innico di Mansiglia così prese a dire.
Credo oggi mai sappiate nobilissimi uditori, come non si possa più ragionare di cosa che non sia infinitamente innanzi noi stata detta, onde verissimo è quel proverbio che dir si suole: se tu vuoi sapere quello che ha da essere, leggi quel ch'è stato: hollo provato molte volte, sendomi accaduto cose che l'ho ritrovate scritte poscia in diversi autori. Al proposito adunque, voi dovete sapere come, in quel tempo che quei tre crudelissimi tiranni avevano occupato la Romana Republica e fatto de' suoi miseri cittadini così crudele editto ed uccisione, Sulpizia moglie di Lentulo, il quale s'era salvato appresso di Sesto Pompeio in Sicilia, si fuggì nascostamente dalla madre e da' parenti, che con gran diligenza la guardavano e vestita da maschio con una sola fante, dal marito finalmente con molto pericolo e fatica si condusse.
Amor saldo e virtuoso di moglie verso il marito e di questo verso quella.
Fu, non è gran tempo, nella città di Siviglia un giovane di assai orrevole famiglia, il quale con tutto che di molte virtù fosse fornito, per diversi contrari accidenti di fortuna nondimeno in povero stato dimorava, percioché la virtù fu sempre compagna della cattiva sorte. Con tutto ciò, perché egli era pratico nell'arte marinaresca e nelle mercanzie altresì, da più diversi mercatanti era adoperato; i quali mettendoli de' loro traffichi nelle mani, ora con uno ed ora con un altro navilio in più diversi luoghi lo mandavano. E perché egli aveva l'animo gentile e del tutto a cose onorate rivolto: però tutto quello che di guadagno li giungeva, senza alcun risparmio lo spendeva in andar pomposamente vestito, onde per questo e per i suoi lodevoli costumi era generalmente amato.
Ora avvenne che una giovane bella e di nobil parentado, di lui ardentissimamente si innamorò, il quale senza volersi di alcuna persona fidare, ad amar lei con tutto il cuore si rivolse; però con grande cordoglio longamente tenne nascosta questa amorosa passione. Nondimeno a longo andar tanto s'adoperò, che da parenti li fu la giovane per sua legitima moglie concessa, della qual cosa mentre che lietissimo dimorava accadde che fu mandato da' suoi padroni a Venezia e di quindi inviato sopra di una nave in Alessandria, con grandissimo cordoglio della moglie. Ma la disgrazia volle ch'egli poco più della metà del camino aveva fatto, quando da certe galeotte di Turchi fu preso e venduto per schiavo in Costantinopoli a un mercatante della città.
Questa amara novella in convenevol tempo alle orecchie della sconsolata giovane pervenuta, senza misura la rese dolente: però quanto fusse greve il suo dolore, a quelli ne lascieremo il giudizio che si sono (amando) ne' sinistri casi ritrovati. Alla fine seco propose non voler più vivere, ma quello che le fece cangiare questa fiera opinione, fu una certa vana speranza di potere anche un giorno rivedere l'amato consorte o per via di riscatto o di qualche altro possibil accidente. Et avendo avuto piena notizia come egli, il cui nome Diego era chiamato, era in Costantinopoli, volentieri, se dalla onestà e dal rispetto delle sue genti non le fusse stato tolto, senza altra considerazione vi sarebbe andata in persona, non solo per vederlo, ma per procurare anche la sua libertà, veggendo che niuno di lui si prendeva cura.
, Marco
si fece chiamare. Et in convenevol tempo in Costantinopoli essendo giunti, senza esser per donna riconosciuta, con mirabile ingegno con certi mercatanti veneziani prese stretta dimestichezza; e tanto con questo mezo andò di Diego domandando, che le fu dalla fortuna concesso aperta via di rivederlo, ma in miseria grandissima ridotto, tutto carico di catene, fachinando per la città: la qual cosa ancorché le fusse di insopportabil dolore, tuttavia le fu carissimo averlo vivo e sano ritrovato.
li danari, con le bolge insieme, erano stati involati.
Oh Agnese anima mia, dove sei? Qual maligna stella è quella che mi ti toglie? Sapessilo io almeno, che con ogni possibil affetto cercherei placarla? Ma come potrò io mai far nel mondo palese il tuo animo invitto e 'l tuo perfetto amore? Lascierò adunque schiava te, la quale hai abbandonato la patria, i parenti ed in forma di vil servo, in così lontani paese sei venuta per donarmi la libertà? Partirò, che colei ch'è un altro me, rimanga in così miserabil servitù? Non certo, no, ciò non sarà mai vero, anzi quando più non potrò, procurerò la mia con la tua morte, acciò l'anima mia si congiunga con la tua; perché mi rendo certo che in tal guisa congiunte, più contente e più liete all'altra vita n'andranno.
E questo detto, desideroso di più non vivere, si dispose, se cento morti potesse ricevere, tutte volerle prima che la sua Agnese in servitù lasciare. Però con matura prudenza a poco a poco con certi schiavi si convenne e trafugatone la donna di notte, celatamente sullo stretto dell'Ellesponto se ne vennero, dove una barca di pescatori condotta avevano; ed in quella di volo entrati, avendo ciascuno recato seco le cose pel viaggio opportune, passarono le due castella;
ed alla desiderata patria, dove tutto il popolo andò loro incontro, non altrimenti che quando Cicerone fu richiamato a Roma dall'esilio. E quivi vissero longamente in pace e contento, cogliendo i dolci frutti delle loro fatiche e procreando nobile prosapia.
Stette tutta la brigata attenta ad ascoltare gli accidenti de' due tribolati amanti, dubbiosa che non fussero malcapitati: ma poscia che udì com'eglino erano pervenuti al sicuro, ne dimostrò qualche segno d'allegrezza. Allora don Alonso, a cui secondo l'ordine toccava a ragionare, fatte le debite circostanze, così incominciò:
Egli sarà necessario che m'abbiate per iscusato se io non così ornatamente procedere come ha fatto il signor don Innico, il quale pochi pari ritroverebbe che seco in ogni sorte d'operar virtuoso stessero al paragone: nondimeno perché io so che pretenderete da me la prontezza dell'animo e 'l desiderio che secondo l'età e le debil forze mie ho di satisfarvi: però state attenti.
Amore scema l'intelletto e sottopone la ragione al senso.
Fu nella città di Toledo nel tempo del re Almansore il Savio
, un nobilissimo giovane, il quale ardentissimamente si innamorò d'una bellissima giovane, la quale similmente il giovane riamando di scambievole amore, amendue nulla più desideravano che con onesto matrimonio dare effetto alle concordi voglie loro. Onde avvenne che la giovane dalle importune richieste dell'amante sollecitata, fu contenta di notte riceverlo a parlamento seco; ed a ciò ella si piegò perch'egli era da una stretta gelosia tormentato, per cagione di un altro giovane che seco di pari passo la giovane amava.
era nominato: il quale a questo romore essendo al luogo del parlamento ritornato aveva dalla giovane inteso il tutto e s'era poscia per tema riparato in casa d'una femina, che come colpevole l'aveva dato nelle mani della giustizia. Onde senza altra difesa fare, subito confessò (per non macchiar l'onor della giovane) che per gelosia aveva tale omicidio con una spada commesso, per il che fu giudicato doversegli tagliar la testa.
A colui che modera gli umani petti, a cui ogni cosa celeste e terrena ubbidisce, è piaciuto di darmi tanta forza da condurmi davanti a voi giustissimo signore, accioché la verità sia manifesta in guisa che il non colpevole per il colpevole non riceva l'ultimo supplizio. La qual cosa ancorché al grado mio poco si convenga, si conviene nondimeno al debito ed all'onesto, al quale più che ad ogni altra cosa sono ubbligata.
Emerinda mia, che così era la giovane nominata, sempre vi fui non meno fedele, che pudico amante; e quantunque io v'abbia tanto sollecitata di condurmi alla vostra presenza, sappiate che non è stato per mal concetto d'animo, né per altra opinione lasciva, ma solo per satisfare alla sincerità del cuore mio, il quale da Dio in poi altro non brama, che di voi servire.
, mi fa molto dubitare.
E ciò detto cadde in un gran varco di lagrime, le quali averebbero a pietà commosso ogni capital nimico, nonché me tenera ed innamorata fanciulla: onde non potei negarli quello che con tanto affetto m'aveva richiesta, anzi con puro e pronto cuore per mio marito l'accettai, non sendo però la prima io che ciò fatto abbia. Di già il gallo dava segno esser passata meza notte, quando mi partii da lui per andarmene a letto e giunta in camera, in un medesimo tempo tema ed un picciolo mormorio il cuor m'assalirono: nondimeno fatta dalla necessità più che dall'animo ardita levo gli occhi e veggio (dimostrandosi Cinzia più che mai chiara e lucente) la testa d'un uomo che si studiava entrarmi in camera, sendo per mia trascuraggine rimasa la finestra aperta.
Oh Dio, fausto e felice sia il nostro matrimonio, perché vorrei che di altro olocausto fusse stato onorato. Questo era giorno da coronar le finestre di fiori novelli e non di sangue umano. Non sono, non sono Emerinda mia le vostre pulite mani nate a così vile e crudele essercizio. Ma poiché il caso è quivi avvenuto, si vuol tenere occulto: e perché il romore cresce, mi voglio partire da voi.
Et detto questo, più morto che vivo se ne andò (che così fusse, lo effetto l'ha dimostrato, percioché non si fidò di rimanere nel luogo secreto ove era, essendo apparito di giorno, che se ne andò ad ascondere in casa di una ribalda che per un reale venderebbe il padre). Partito da me lo sfortunato giovane amante gradito e non ancora dolce marito, di me medesima alquanto mi dolsi, per avere così lungo tempo penato ad acquistarmi uomo di poco ardire e poscia dissi:
La paura per due modi si può considerare, s'ella è naturale, non è diffetto, s'ella è per pietà, è lecita a ciascuno che di civilmente vivere abbi pensiero. Il meschino forse si duole che io giovane e sposa abbia un tal misfatto commesso.
E così detto tante lagrime in un tratto le soprabondarono, che non potendo favellare più oltre si tacque con grandissima compassione e meraviglia del re e di tutti gli altri circostanti; il quale rimase stupefatto veggendo che una giovane onorata, senza alcun freno di onestà, sprezzando la morte, da per sé non richiesta, né forzata, era venuta a manifestare un tal fatto.
Maravigliosa cosa è l'uomo, disse allora don Velasco, avendosi dipinto il volto di color di rose, ciascheduno mirandolo, perché dovesse incominciare: poiché fin qui dalle sue nobil parti non v'è ancora una certa determinata conclusione, onde si può vedere come egli è veramente opera dell'artefice supremo sopra tutte le altre, nel cui maraviglioso intelletto si riserba ogni sua perfezione.
Piacere e dispiacere si trova in Amore.
Nella gentile e regia città di Lisbona fu, non ha molto tempo, uno infelice giovane nobilissimo, ricco e bello, la cui famiglia si tace e don Alvaro
, secondo l'usanza del paese nominato, il quale si innamorò d'una nobilissima giovane e bella, tanto caldamente, che non s'amò mai più per uomo donna.
Sì bel, sì buon, sì giovan a pietade
Mosse ogni sesso, ogn'ordine, ogni etade.
Fatto ch'ebbe qui fine don Velasco al suo ragionamento, la brigata tutta ne rimase scontenta e si diede a biasimar la giovane, perché la finestra a don Alvaro non avesse aperta, avendoli poco dianzi aperto il cuore: onde don Ferando, a cui secondo l'ordine toccava il favellare, così incominciò:
Quantunque si dica che le donne sappiano dare buoni consigli e megliori alla sprovista che pensatamente, non è però che così sia: perché se così fusse, non sarebbe opera nostra, ma di qualche occulta cagione che non spettasse a noi, la quale non ci recherebbe alcuna lode ed il crederla sarebbe pazzia. Però, siccome gli uomini ponderando i fatti d'importanza col tempo, col senno, guidano a miglior porto le loro imprese, a loro così avviene, sendo con gli uomini una medesima essenza.
Consiglio di donna, in vindicare la morte del marito.
Fu non ha guari una valorosa e bella giovane, per nome Cleria, di cui arse d'amore un giovane uguale a lei in ogni conto detto Flavio
, il quale avvenga che la facesse più fiate per moglie addimandare, nondimeno sempre per i suoi pessimi costumi fu ribattuto. Ora avvenne ch'ella fu maritata ad un altro nobilissimo giovane per nome Anteo
a lei carissimo; perloché tenendo sempre occulto Flavio l'amoroso fuoco e portando con simulata pazienza l'ingiuriosa repulsa, aspettando
che qualche occasione se gli parasse davanti di poter dare effetto al suo di già conceputo pensiero.
Fuggiremo forse noi a guisa di questi altri servi, lasciandoci uscire sì bella caccia di mano? Deh perché non piuttosto tu con cotesto spiedo ed io con questa lancia che ci ritroviamo, sproniamo i veloci corsieri verso questo porco, il quale è nostro al sicuro?
E questo detto non pensando più oltre Anteo, si diedero la bestia a seguire, la quale voltandosi e fremendo i denti in atto si pose come se stesse dubbiosa qual de' due prima assalir dovesse. Allora Anteo lanciatole lo spiedo alquanto la ferì, ma Flavio il disleale, ferì il cavallo di Anteo in guisa che cadde a terra e fece il padrone somigliantemente cadere.
Colui ha ardimento di richiedere il mio matrimonio, che mi ha privata d'ogni mio bene? Oh mie misere mani, che le ferite del porco credendovi nettare, nettaste quelle della scelerata lancia di Flavio.
E con queste ed altre simili parole pietose fra sé delibera di punire quel crudele assassino e poscia morendo gire a congiungersi col suo marito. Et eccoti il detestabile dimandatore di nuovo importunare il suo matrimonio, ma ella tanto d'indugio con parole piacevoli li domanda, che l'anima del marito sia placata.
Verraitene questa vegnente notte sconosciuto e bene coperto, senza alcuno compagno sulla terza vigilia alla mia porta, facendo solo una fiata cenno con un fischio, dove dalla mia balia, che attenderà la tua venuta, ti sarà aperto, per condurti senza lume nella mia camera.
Composto l'ordine Flavio e perciò tutto lieto, quando il tempo li parve, venne al luogo dove dalla vecchia senza alcun suspetto fu condotto nella ordinata camera: e quivi, sì come era stata instrutta, non vi essendo Cleria, si diede a trattenerlo, dicendoli che ella non potrebbe venire così presto, perché serviva ad alcuni bisogni di suo padre, che gravemente ammalato giacea; e ultimamente lo invitò a far collazione e datoli a bever vino acconcio di sonnifero liquore, in breve l'assettò di sorte che, sendo caduto in terra supino, ogni picciol fanciullo sicuramente gli averebbe potuto fare ingiuria. Allora la vecchia, chiamata Cleria, la desiderata preda le dimostrò: onde ella con animo infuriato soprastandoli disse:
Fedel compagno del mio marito, è questa la mano che il mio caro ed amato sangue sparse? Son questi gli occhi che mi mirarono per suo tanto danno e male? I quali indivinandosi le future tenebre si stanno così sepulti nel sonno. Ma non credere già per questo, oh uomo empio e scelerato, ch'io t'uccida per farti d'una simil morte compagno co 'l mio marito, percioché troppo contento ne anderebbe l'anima tua a' luoghi non conosciuti, morendo per mano di colei che in vita fingesti che così cara ti fusse ed in così piacevole sonno, che la morte ti renderebbe assai men grave. Anzi non potendo di te prender quella vendetta che merita il tuo fallo, essendo la morte fine di tutte le miserie dell'uomo, mi compiaccio che tu vivi: ma vivi di sorte che sii nel mondo condegno spettacolo di tutti i traditori.
Indi tolto una agucchia, che nelle sue bellissime treccie aveva per questo effetto riposta, tutti dua gli occhi gli perfora in guisa che il senso del vedere li toglie. E mentre che egli per la bevanda non ancor digesta si raggirava quassando il capo sopra del suolo per la passione sudetta, tolta la spada che il marito portar soleva, sopra del suo sepulcro si ridusse e quivi di mano propria s'uccise, dove fu sepolta insieme con lui. Laonde Flavio tardi avvedutosi dell'errore, brancolone a casa se ne ritornò, terminando gli anni suoi da dolore e da vergogna convinto, con volontaria fame. Qui fece fine don Ferando al suo ragionamento, sopra del quale vi fu che dire assai: ma don Pietro a cui secondo l'ordine toccava il luogo di ragionare, fatto che ebbe le solite cerimonie, così incominciò:
Li spiacevoli accidenti che dalli nostri compagni sono stati raccontati, saranno come un aspro e faticoso monte a cui ne segua un dilettevole piano: percioché io, uscendo di così fatte morti, un caso di gelosia piacevole e bello intendo di raccontarvi, per ritornare agli animi vostri come prima lieti, dandomi a credere che la morte di Cleria gli abbia alquanto turbati, perché ella era pure troppo degna di vita. Sappiate adunque, ch'io per me non so quale disaventura sia stata la mia, che mai scintilla d'amore mi scaldò il petto, né vi crediate che questa mia pallidezza di volto sia stata di ciò cagione, percioché certissimo sono di essere stato amato, nondimeno mai, né a riamare cui mi amava, né ad amare altrui mi sono potuto piegare.
:
Amare un solo amante è vero amore,
e d'alma gentil nasce:
Ma chi di più l'ingorda voglia pasce,
Quest'è lussuria poi, quest'è furore.
E questo accade, perché in ogni sorte di cosa il sommo grado è solamente uno e però la virtù unita è sempre più perfetta e maggiore, che la disgiunta e disunita, non è, intanto che colui che ama più d'una persona (non intendendo però della benevolenza, né d'altre officiose operazioni) separa la virtù e non ama perfettamente. Da questo vero amore adunque nasce quel timore, invidia, odio, perturbazione o cura, come circonscrivendola la cominciò a nominare un gran poeta italiano in un suo leggiadro sonetto, detta gelosia:
Cura, che di timor ti nutri, e cresci,
Et tosto fede a tuoi sospetti acquisti,
Et mentre colla fiamma il gelo mesci,
Tutto 'l regno d'amor turbi, e contristi.
Poi che in breve ora entro il mio dolce hai misti
Tutti gli amari tuoi, del mio cor esci:
Torna a Cocito, a lagrimosi, e tristi
Antri d'inferno, ivi a te stessa incresci.
Ivi senza riposo i giorni mena,
Senza sonno le notti, ivi ti duoli
Non men di dubbia, che di certa pena.
Vattene; a che più fiera, che non suoli,
Se 'l tuo venen m'è corso in ogni vena,
Con nuove Larve a me ritorni, e voli?
La qual gelosia è stata nel mondo fra gli scrittori di diverse contese e differenze cagione: onde noi, lasciando ciascuno nella sua opinione, concluderemo dove è un grande amore, quivi ancora essere una gran gelosia, né potere essere amore, senza gelosia. E ben vero, ch'ella da principio, quando è una certa specie di timore, noi può sospingere ad opere lodevoli ed onorate: ed allora è buona, quanto, quando, dove, come e perché bisogna; ma confermata che s'è, diventa una così fiera passione, che non ad alzar noi, anzi a distrugger del tutto il nostro rivale ci sospinge.
Gelosia di marito cagiona un dolce inganno, che li fece la moglie.
Odoardo famosissimo re di Aragona ebbe moglie di eletta vaghezza, la quale nel venire a marito, fra l'altre donne menò seco una donzella figlia d'una sua balia a sé carissima, la quale era di pari fattezze tanto a lei consimile, che se fussero state d'uguali abiti vestite, con gran fatica si sarebbe potuto discernere chi fusse la regina. Ora non andò molto tempo (percioché amore senza altro rispetto ferisce il picciolo e 'l grande) che il re pose l'occhio adosso a costei e se ne innamorò di sorte che la moglie se n'accorse; onde divenne sì fattamente gelosa, che con quella diligenza guardava questa donzella, con la quale si sogliono guardare i morti corpi e perciò veniva tolto al re ogni comodità di tirare a segno le sue voglie.
. Et avvenne che nel prender porto e ritrovandosi il re a passeggiare presso alla marina, come di nuove cose vago, fece venire a sé il padrone, domandandoli di dove venisse e che passeggieri e mercanzie avesse recato, il quale di tutto lo satisfece e tanto li pose in grazia questo giovane, ch'egli fattoselo venire davanti, li domandò del nome, della patria e d'altri particolari; indi al suo real palazzo ne lo mandò, dando ordine che fusse magnificamente adagiato ed intertenuto, come fu.
Per avere udito dal padrone della nave che nel nostro regno ti condusse, come sei nobile e virtuoso e che non altra cosa è cagione del tuo andare errando, che amore, abbiamo preso fiducia di conferirti alcune cose per i nostri affari di grandissimo peso, con pensiero che se con la tua speranza ci potessi porgere alcun rimedio, farlo debbi: dove che noi a maggior cose per te solleciti e desti ci offeriamo. Sappi adunque nobilissimo giovane, che se ben gli affanni nostri sono differenti, nondimeno solo una è la fiamma: percioché noi amiamo una vaga donzella con tutto il cuore, ma la nostra gelosa moglie così ci stimula, che né con parole, né con fatti potiamo dare compimento a' nostri desiri.
Udito il giovane la real proposta, da una parte per bene avventurato si tenne, avendo nei suoi mali un simil uomo per compagno, il quale uscito de' gangheri, senza conoscerlo appena, come se fusse indovino, gli avesse fatto una simil richiesta. Dall'altra poi discorrendo meglio, li parve la pratica dubbiosa e perigliosa non poco, per ritrovarsi egli in paesi così lontani e senza auttorità. Et avvenga che il contradire li paresse sconvenevole, essendoli per le sue cortesie ubbligato e 'l dar di mano all'opera, cosa poco di sé degna, in offesa di Dio e d'acquistarne biasimo e forse danno: nondimeno con quel miglior consiglio che fra dubbiosi pensieri seppe porgere a se stesso, al re rispose:
Poscia che questa pratica, oh sire, altro non richiede che con qualche menzogna velar gli occhi della regina, tanto che potiate al vostro desio satisfare, ancorché poco convenga a persona come sono io nobilmente nata e nutrita, interpor l'opera sua in cosa fuor del giusto fra marito e moglie; tuttavia perché non abbiate cagione di riputarmi ingrato e per render quella ricompensa al liberale e grato proceder che meco usato avete, la qual più dalla fortuna, che dal dovere, m'è concessa, sono contento di accettare questo carico e sforzarmi quanto per me sarà possibile di satisfarvi.
Non spiacque un tal principio al re, onde alle cose ragionate diede con subita prestezza ordine e modo; però poco da poi eccoti che la regina orrevolmente accompagnata fece il giovane venire a sé e doppo alcuni acconci ragionamenti seco lo condusse sopra di un balcone e quivi a sedere postasi (stando in disparte tutta la compagnia) gli addimandò come fusse quivi capitato. Questa dimanda parve al giovane occasione molto lecita ed opportuna al suo disegno, però le incominciò a raccontare il suo travagliato amore e finalmente le concluse che per gelosia era a cattivo termine condotto. A questa parola la regina mandò fuori un profondo sospiro ed egli pur seguitando disse:
Et s'io non medicavo questa infirmità di gelosia, ero morto al sicuro.
Allora ella con più sereno volto disse:
Se brami che Iddio sano e salvo alla desiderata patria ti conduca, insegnami in che guisa facesti a medicare questa incurabile piaga: non mel negare ti prego.
Et detto questo alla libera gli raccontò tutti gli affanni che per cagione di questa sua donzella co 'l marito sofferiva: laonde parendo al giovane la via oggimai nel parlare sicura, soprastato alquanto, così disse:
La medicina so troppo io ben fare, serenissima regina, purché a voi dia il cuore di secreto tenere ciò ch'io vi ragionerò.
Non rimase allora alcuna beatitudine in cielo, che ella non imprecasse giurandogli la sua fede di secreto tenerlo e di convenevolmente riservire tanta gratitudine usatale in così fatto bisogno; onde egli così seguitò:
Io vi prometto un odio tale fra il re e questa donzella, che mai vivi, né morti saranno amici.
Credette per allora la regina alla falsa promessa, essendoché ciascuno suol dar facilmente credenza a quello che li va per l'animo e li diletta; però fermarono l'ordine che quel giorno ch'ella andasse a caccia co 'l marito, egli dovesse attendere alla promessa e doppo tolto partenza se n'andarono alle stanze loro.
Ritornato il re, il giovane il tutto con l'ordinata caccia gli raccontò, la qual cosa egli udita, cadde in tanta allegrezza, che fu per smascellar dalle risa; onde fu determinato fra loro questo andare a caccia esser rimedio molto opportuno, percioché il re potrebbe facilmente lasciar ne' boschi la compagnia e d'altro abito vestito tornarsene a casa e per uno uscetto dietro al palagio andarsene nell'ordinata camera e quivi dar principio e forse fine a' suoi amori.
Bella per certo e lodevole cosa d'un re giustissimo e volendo più oltre seguire, egli tutto affrontato per la novità della cosa, fu per sfinir di vergogna, la quale come che lo trafiggesse sul vivo, nondimeno fatto buon animo, doppo un veloce discorso interrompendola le disse. Non più moglie mia ti prego, non più, perché hai ragione d'avvantaggio e tu sola sei stata molto più avvertita e scaltra, che noi stati non siamo: però poiché il caso è qui, non se ne parli più, ti prego, perché mai avrai occasione di dolerti di me.
Indi chiamato il giovine forestiero, fecero insieme le maggior risa del mondo ed alla donzella subito diedero onorevole marito; e così fra costoro fu verificato quel proverbio che dir si suole: "Dio ci mandi male, che ben ci metta".
Qui avendo fatto fine Don Pietro al suo piacevole ragionamento, senza ritornare i cacciatori nella città per esser cosa da presupporsela, don Figueroa, a cui toccava per ultimo di ragionare, fatto silenzio, in questa guisa spiegò le sue parole:
I ragionamenti di questi virtuosi hidalghi (cagionati dalla signora Giustina), nobilissimi uditori, sono stati in guisa che facilmente potiamo comprendere quanta prudenza e quanto valore alberghi ne' loro petti preclari; e sono stati tali, che se non gli avessimo uditi, mal agevolmente da noi si crederebbero
. Però, posciaché siamo stati prevenuti da' loro nobili pensieri, sarà bene che rivolgiamo i nostri propositi altrove, per concedergli tutta la meritata lode, la quale si hanno guadagnata valorosamente.
uomini di veste lunga chiudendo gli occhi, con grave oltraggio delle miserelle: che maledetta sia questa ambizione e benedetti sieno i tempi dei nostri padri e dei nostri avi, nei quali un mantel puro fino a' piedi rappresentava la maestà di ogni grande senatore e maritavansi le figlie con poche dote, senza fare tanta eccezione di persone.
desinava la mattina con una minestra ed un ravaniglio per ciascuno, senza tante sorti di cibi ed altre imbandigioni e nondimeno erano quei medesimi e ne' medesimi onori: percioché chi vuole esser uomo dabbene, bisogna che sia parco, non stando la virtù e la bontà nell'ambizione del mangiare e bere e negli abiti superbi e sontuosi.
Chi cerca ingannar resta ingannato.
Fu adunque non è molto tempo un Cola Antonio da Suriento, il quale tutto il tempo di sua vita aveva speso ed appreso con diversi modi ad ingannare questo e quello ed essendosi un giorno partito da Suriento se ne venne a Napoli, dove s'avvisò voler comporre una delle sue gherminelle la più astuta del mondo. Era venuto in cognizione d'uno Pietro toscano
, che quivi abitava, sendosi di già disposto a venire a Roma, cercò d'avere una lettera da costui in sua raccomandazione a Bazio speziale
suo fratello, il quale avendo moglie e figliuoli, del suo essercizio e de' beni da suo padre lasciatoli agiatamente viveva: della quale Pietro li fu cortese.
Bazio fratello, verrà costì questo principe mio padrone, il quale per sue importantissime bisogne se ne va sconosciuto in Francia ed è un gran signore, ricco di molti contadi, marchesati ed altri titoli opulenti di rendite nel Milanese, in Francia ed in altri luoghi; però abbi cura di tenerlo secreto e di farli tutto l'onore che puoi albergandolo in casa tua, con due servidori ch'egli ha solamente seco, avvisandoti che lui è per dimorare in Roma per qualche giorno, onde avendogli io detto che il tuo figlio Lorenzo
è nell'età d'anni sedeci (percioché ha alloggiato meco da quindici giorni), mi ha promesso di volergli rinunziare un buon contado
: onde se tu dovessi vendere quanto ti ritrovi per farli onore, fallo, perché ora è giunto il tempo di gettare un pesciolino per prendere un luccio.
.
Principe mio, voi siate il benvenuto.
Et egli a queste parole subito disse:
Non mi chiamate principe vi prego, per buon rispetto, ma Urbano, che tale è il nome mio.
La qual cosa non era altro che voler dire esser un principe così chiamato, il quale di certo tempo avanti si era fuggito senza sapere dove si fusse andato: per il qual nome lo speziale ringagliardito, seguendo disse:
Messer Urbano, poiché vi siete degnato di venire a casa d'un amico e servidore vostro, tenete per fermo che la persona mia e le mie facultà, benché picciole, sieno per essere del tutto a' vostri piaceri, purché di accettarle vi piaccia. Mi sa ben male di non essere in quello acconcio, che io mi ritrovava innanzi al sacco di questa città, perché più agiatamente, sì come meritate, vi riposereste: nondimeno se con gli effetti non potrò dimostrarvi il buon volere, accetterete la prontezza dell'animo, il quale altro non brama che potervi satisfare e servirvi.
Poscia che Bazio fu dal principe delle amorevoli offerte ringraziato, a Lucia sua moglie fece apprestar da cena, dopo la quale ella pose in assetto un sontuosissimo letto ed un bagnuolo di greco e liscia, con salvia, rosmarino ed altre erbuccie odorifere da confortare i piedi al principe, il quale come che si fu lasciato lavare con gravità, se ne entrò nel letto. Ma la vegnente mattina lo speziale più tondo che acuto, se ne andò a un fondaco di drapperia e chiamato un sartore comperò a danari contanti otto canne di veluto per vestire il principe e rascia fiorentina per farle un mantello.
mattelica avea allo speziale insegnato l'arte del bottigliere ed alla moglie di far la cucina. Ma parendo allo speziale di dovere, per fare ogni suo debito e maggiormente questo principe onorare, fece una scelta fino in dodeci de' suoi più stretti parenti e disse loro:
Amici miei venite meco, perché oggi è giunta l'ora della mia e vostra ventura, in guisa che io penso del tutto sbandir da me questa arte.
Et eglino maravigliati per la novità della cosa, gli addimandarono di questo fatto la cagione. Et egli per soverchia allegrezza, ansando rispondere non poteva; finalmente raccolto l'alito, così disse:
E m'è venuto in casa un gran principe, il quale è per innalzar la casa mia ed investir in offizi di rendita Lorenzo mio, sì come mio fratello di Napoli mi scrive.
E mostrata loro la lettera, tutti lieti di brigata, con la cognata dello speziale per nome Botonia, determinarono di dovere far ogni possibile onore a questo principe. Aveva questa Botonia un suo figliuolo nominato Cola Ianni
, il quale ella dianzi aveva dato come figliuolo ad un barone romano
, accioché lo mandasse a scuola e lo facesse virtuoso divenire: ma su questa la bamba femina, senz'altro, glielo levò, per farne dono al principe, come fece; a cui il putto poscia grattava i piedi.
ducati ed al marito della Botonia sua cognata due mille
. Indi a Lorenzo rinunziò un contado nel Cremonese ed a Cola Ianni similmente un altro contado in Francia
; e si portò sì fattamente in dispensare questi beni, che neanco il notaro (perché egli era oggi mai vecchio e di presenza grave) s'avide di questa gagliofferia, sé forse non chiuse gli occhi bastandoli di trarne il suo profitto.
barro ebbe finito di fare questo testamento e queste rinunzie, fu tanta l'allegrezza dello speziale e di tutti gli altri, che la camicia non toccava loro le natiche; onde quando tempo parve al principe di non dovere stare più ammalato, di botto si fece gagliardo, dando a credere d'esser di buona natura e forte di complessione: e conoscendo avvicinarsi il tempo da doversi partire di Roma, perché sapeva benissimo aggiustare gli avvisi, pensò di volersi menar dietro questi sciocchi, accioché stessero più forti nella concetta castronaggine
.
, che ne valeva più di 1000
. Et similmente parte vendé e parte donò degli ordini della sua bottega, per esser presto per la partita, acciò non mancassero per il camino ottime vivande a questo ribaldo, pensando di dovere prestare uno per aver mille, con divenire in un tratto di speziale gentiluomo: percioché pare oggidì, che chi ha de' danari pur assai, sia gentiluomo da dovero e sia pur nato onde si voglia. Ma Iddio giusto giudice dell'inganni usati contra gl'innocenti permise che fusse un simil guisa scoperta la sceleraggine di costui.
Vien qua ghiottone, dove vai? Perché ti sei fuggito da me? Dove stai?
Et egli rispondendogli, disse che sua madre l'aveva acconcio con un grande uomo nuovamente venuto in Roma e che alloggiava in casa di Bazio speziale presso al palagio di Siena e fuggissi. Per la cui cagione il barone adirato ritornò dalla Botonia e le disse:
Buona femina, non fummo noi d'accordo, quando mi desti il vostro Cola Ianni, di darlomi come per mio figlio? Ma che è quegli che alloggia in casa di Bazio speziale, a cui dato l'avete?
Allora madonna Bugiardetta non sapendo altro che si dire, finse di ciò nulla sapere e voltogli le spalle, come colei che aveva di già nell'animo concetto che di breve Cola Ianni dovesse esser l'occhio destro del principe e doversi fare una zimarra di zibellini con l'entrate del contato. Di che il barone maggiormente adirato, l'ultima sera che che il picaro vigliacco la vegnente mattina con questa corte partir dovea, altro però non sapendo della sua condizione, se n'andò dal governatore, a cui raccontò come in casa di esso speziale si trovava un uomo di pessima vita e grandissimo guidonaccio
; onde sul far del giorno venne quivi tutta la sbirraglia e ritrovato il ladro co' compagni in assetto per partire, stretti e legati tutti insieme, più che di passo, li menarono in Torre di Nona.
in testa fusse frustato e poi li fussero tagliate le punte delle orecchie da basso e mandato in bando fuori di tutto il territorio di santa chiesa. Ma quando il manigoldo li tagliò le orecchie, vidde che non n'era uscita goccia di sangue, della qual cosa maravigliato, più sottilmente riguardando ritrovò che elleno, per essergli state altra fiata tagliate erano ingegnosamente state fatte posticcie di stucco; la qual cosa diede da ridere a tutta Roma, avendo egli adempita la sentenza, co' l lasciarsi tagliare quella parte d'orecchie ch'ella diceva. Del cui bel fatto ridendo tutta la brigata, soggiunse d'improviso uno degli uditori ch'era stato soldato in Fiandra, in Francia, in Italia ed in altri paesi e disse
:
Signori, non è dubbio che la liberalità si deve usare per l'amor di Dio e non per l'onor del mondo o con assegnazione; ma che vi pare del signor di Figueroa, il quale non solo si sforza di dare buoni essempi ed ottimi consigli, ma dalla sua conversazione fiori e frutti sempre si raccoglieno. Imperoché, chi averebbe creduto ch'egli con la sua prefazione, avese dato poscia in cosa sì piacevole e ridicola; la quale io credo purtroppo che sia accaduta verissima, percioché noi ancora abbiamo veduto nelle dette provincie e stati di questi medesimi truffatori, i quali si sono finti di casa Fuccari, duchi di Nocera; ma quel ch'è peggio, si trovano nel regno di Napoli uomini che nella nascita loro portano nelle ossa questi picareschi costumi; e non ha guari che un certo napolitano per contrafare la mano ed ingannare il Banco di San Marco in Venezia, restò in quella piazza appiccato ad una forca.
. Molti altri simili a costoro, hanno ritrovato de' corrivi che hanno prestato credenza e solo per questa benedetta ambizione, come non contenti dello stato proprio, pensando di trarne profitto; la quale tanto più si deve fuggire, quanto perché a' nostri domestici ancora ci rende odiosi: perché l'ambizioso comanda sempre con arroganza, come fa la nostra nazione, ch'è cosa mala, la qual cosa è certa legge a farsi malvolere; e purtroppo siamo mal voluti e meritatamente.
.
Il discorso fu così lungo che quando si finì ebbe fine anco il giorno, onde io mi rizzai in piedi e ringraziai quelli onorati gentiluomini della cortese ricreazione e della compita lor conversazione; e così dopo reciprochi complimenti da me si licenziarono e tutti se n'andarono alle cose loro ed io ritirandomi nelle mie stanze e poco per appresso avendo cenato, andassimo tutti noi di casa a riposare.
La mattina non ancora ero vestita, che mi cominciarono altre visite, onde m'accorsi del giuoco che bramavano;
Sorellina bella, come passò la giornata di Areniglia? Se non abbruciata, intinta; che una candela attaccata ad un muro, ancorché sia di canna, di calce e di calcina, non lo può totalmente abbruciare, ma ben le lascia di tintura il segno: essendo cosa impossibile che il fuoco di tre cose sempre ne faccia una, oche brucia o che tinge o che scotta. Che farà egli se si attacca a carne grassa e delicata? Al sicuro si consumerà, come fa la candela al vento.
Queste sono necessitadi che communemente ed ogni qualora si odono e si vedono, dicano pure quello che dissero di Didone. Nella mia terra non mi sapevano nominare, né chiamar per altro nome che l'Albergatrice burlevole, ancorché altri me chiamassero la Villana delle burle e de las borlas, cioè da' coralli al collo grossi. Io non mi curavo punto di questi loro nomi, perché a me bastava per adornamento una collana di borlas al collo, con il collare di bianca tela incollato ed accollato con colla d'amito.
Godo d'aver preso per tema di questo capitolo quel proverbio che dice che chi rubba al ladron guadagna certo dì di perdon. Ma coloro che con la penna mi fanno parlare, non è per altro che per tesser un'istoria delle mie picaresche guidonerie. E meglio ch'io chiuda la finestra a questo Secondo Libro, accioché meglio possino dormir le genti. Io l'ho finito.
Moralità |
La ubbriachezza non solo impedisce il buon intelletto, ma dannifica la ragione e ben spesso priva l'uomo di questa vita e quello che si ubbriaca molto più pecca, che non gusta. Apprenda bene il lettore questa mia dottrina, ch'è un dipingerli, è scolpirli la condizione d'un uomo inconsiderato, ozioso, senza onore e molto più senza divozione alcuna, il cui fine non è altro che gusto, con offesa d'Iddio e di pessimo costume e di niun altra cosa. S'apprende anco che il vivere civile ed onoratamente in piacevoli e virtuose conversazioni è cosa che fuga gli vizi e specialmente l'ozio, radice e capo di tutti i mali: e però imparino i padri di famiglia a ben educare i loro figliuoli, perché chi non sarà buon soldato, non sarà neanco buon capitano.
Il fine della prima parte della Picara. |